Premessa: questo articolo avrà un taglio un po’ diverso dal solito. Parlerò, ma solo apparentemente, di calcio.
All’indomani della morte di Diego Armando Maradona, avvenuta il 25 novembre del 2020, qualcuno ha scritto una brevissima frase, quasi uno slogan, che mi ha colpito: “Il Novecento ha chiuso”.
Da lì a qualche mese, hanno iniziato a circolare poco rassicuranti notizie sulla condizione di salute dell’altro calciatore che, proprio con Maradona, si è conteso e ancora si contende (con sporadiche incursioni concesse al solo Leo Messi) il titolo di più forte calciatore di tutti i tempi. Fino a quando anche Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelé, ci ha lasciati. Era il 29 dicembre 2022.
Tutt’altro impatto emotivo per me che, giovane tifoso blucerchiato, l’ho visto giocare e segnare, ha avuto la scomparsa di Gianluca Vialli, avvenuta il 6 gennaio 2023.
Né va dimenticato, depositario anch’egli di una maniera antica di interpretare il calcio (in campo e fuori) Siniša Mihajlović, morto il 16 dicembre del 2022.
Ricordi ed emotività
Ho quarantasette anni, e ho visto giocare dal vivo tre dei quattro calciatori appena citati.
Pelé e Maradona, come abbiamo detto, sono stati emblemi del loro sport. Mihajlović e Vialli sono stati il primo importante il secondo fondamentale per la mia emotività di tifoso.
La morte di figure di quella qualità tecnica e atletica, oltre che dotate di personalità così spiccate, può indurre al rischio della melensaggine. E chissà quanti post sui social, ma anche articoli affidati a professionisti della comunicazione, ho letto storcendo il naso dopo le loro scomparse.
Tralasciando le becere considerazioni circolate sulla fantomatica eroicità dei due ex sampdoriani (come se l’esito di certe malattie dipendesse dalla tenacia), si è sempre tentati di mescolare il ricordo con l’emotività, e immaginarsi un passato mitico oggi soppiantato da un presente corrotto.
Ah quant’era bello il calcio ai miei tempi, quando la domenica si andava a passeggio e gli uomini ascoltavano Tutto il calcio minuto per minuto alla radiolina…
Insomma: il calcio di Pelé, Maradona e Vialli era davvero migliore di oggi? Era migliore la società, il mondo? Eravamo migliori noi?
Il calcio di Pelé, Maradona e Vialli
Eravamo più giovani, questo sì. E rimpiangendo la nostra giovinezza, finiamo per rimpiangere tutto di essa, perdendo ogni capacità di distinzione del buono dal meno buono.
Perché basterebbe ricordarsi di come, se la domenica gli uomini passeggiavano ascoltando le partite alla radiolina, chissà quante mogli e quanti figli stavano al loro fianco annoiati, per non dire di peggio.
Bene. Una volta che ci siamo tutelati dalla retorica lì in agguato, però, non possiamo non fare parola di alcune vistose differenze tra il calcio di Maradona e Vialli (Pelé tralasciamolo: lo ricordiamo troppo poco) e quello dei nostri giorni.
Tre o quattro decenni fa c’erano ancora presidenti che dalla panchina si sgolavano più degli allenatori, allenatori in tuta che minacciavano le curve avversarie (curve peraltro sempre piene di tifosi), gol in acrobazia su campi così infangati che oggi neanche nei tornei parrocchiali, giocatori mediaticamente ingestibili (ma davvero, non attraverso gesti che semmai, oggi, sono mediaticamente studiatissimi).
Sul calcio aleggiava insomma un’ingenuità che coinvolgeva tutti, dai vertici societari ai calciatori, dalle tifoserie ai giornalisti. Vialli, dopo la vittoria della Sampdoria in Coppa Italia nel 1988, era conteso da diverse grandi squadre. E intervistato a caldo ha detto: “Ho firmato per noi”, senza necessità di specificare a cosa corrispondesse quel noi. E Maradona poteva permettersi di dichiarare che lo stadio San Paolo di Napoli sarebbe stato il cimitero del Milan.
Oggi addio ingenuità: il mondo è maturato. E i calciatori, a testa bassa sui device o con le cuffie wireless, passano dal campo di allenamento all’albergo, dall’albergo al pullman e dal pullman allo stadio.
Nessun rimpianto, non era meglio ieri. Ma una cosa è certa: il Novecento ha chiuso.
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