Cari lettori. Come voi ben sapete, questa rubrichina è in fondo uno spazio in cui – tra recensioni di prodotti, di gare e di libri, e articoli più liberi in cui vi fornisco le mie impressioni sulla corsa e su quanto le sta attorno – celebriamo la bellezza dello sport. Soprattutto, celebriamo il mistero ineffabile delle discipline di resistenza (e anche noi resistiamo all’inglese, che ci vorrebbe far scrivere endurance).
Perché siamo convinti che lo sport, a prescindere dalle qualità atletiche di chi lo pratichi, sia una misura del mondo, un atteggiamento esistenziale, dia senso e ritmo a ogni individualità, ricollocandola in uno spazio ben più antico e necessario di quello sociale. Correre, faticare facendo sport, restituisce invariabilmente la sensazione di essere animale tra animali, di far parte di un millenario ciclo naturale.
Ogni articolo che esce al lunedì, quindi, vorrebbe essere una festa, la condivisione di una rincorsa infinita ed entusiasmante verso l’ineffabile mistero che la corsa stessa sembra sempre spostare di un metro più in là.
Tutto bello, quindi?
Prima o poi doveva succedere
Fino a qui sì, tutto bello. Fino a qui.
Non so cosa ne pensiate voi, ma tra i luoghi comuni che peggio sopporto c’è la frase Prima o poi doveva succedere: un concentrato di presunzione, inclinazione al senno di poi e tendenza un po’ macabra a rimarcare le piccole e grandi disgrazie altrui.
Mi permetterete, per una volta, di personalizzare il discorso. Perché Prima o poi doveva succedere è la frase che mi sto sentendo ripetere da qualche giorno. Siccome, dopo anni che ho potuto allenarmi senza particolari guai fisici, è toccato anche a me il primo infortunio.
Si tratta di una fascite plantare noiosetta, per la quale – come in un cortometraggio scritto da Franz Kafka e girato da Carlo Verdone – credo di avere contattato tutti i medici della provincia in cui vivo. (E sì, avete indovinato: ciascuno di loro mi ha dato consigli differenti).
Ma non è vero che prima o poi doveva succedere. C’è solo una cosa che prima o poi deve succedere a tutti, e non preoccupatevi, non mi offendo se state facendo gli scongiuri.
Anzi, sono arrabbiato proprio per due motivi. Il primo, naturalmente, è che stare senza correre non è per me cosa semplice. Il secondo è proprio perché, contrario all’adagio per cui un podista prima o poi dovrà senza dubbio infortunarsi, mi ero convinto che – adottando una buona tecnica di corsa e tenendo allenata anche la muscolatura del busto – si potesse correre pressoché in eterno senza mai un infortunio.
Peccato: almeno per quanto mi riguarda non è stato così.
La corsa senza la corsa
Però questa iattura porta con sé almeno un elemento positivo.
L’infortunio mi ha restituito in maniera ancora più netta e precisa il senso che riveste la corsa per me, la sua centralità.
No, non è una mania. Né un passatempo un po’ scappato di mano a un signore di mezza età. La corsa è un’attività per cui siamo nati, per cui il nostro corpo – col suo sistema di traspirazione eccetera – è stato progettato. La corsa è un’attività naturale, stare al computer otto ore al giorno è un’attività innaturale.
Poi si sa, l’uomo è animale eccezionalmente metamorfico. Ma che non si dica che i tempi sono cambiati, e che è molto più comodo stare davanti a un computer rispetto a fare come facevano i nostri antenati, che si procacciavano il cibo inseguendo le prede.
Concedo il fatto che preferisco anch’io acquistare la (ormai poca) carne che mangio nei negozi di fiducia. Per il resto, mai come in questi giorni successivi all’infortunio ho scoperto quanto poco mi interessi la vita comoda, e quanto le comodità atrofizzino il nostro senso critico, le nostre passioni, la nostra capacità di esplorarci, di cercare il nostro nucleo più intimo e vero al di là degli abiti comportamentali che ogni giorno siamo obbligati a indossare.
Tutte attitudini che la corsa allena in modo impareggiabile.
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