La mia pallavolo

Prima considerazione: il titolo non è un fake, come si usa dire oggi. Stavolta vi parlerò di pallavolo.

Seconda considerazione: vi parlerò della mia pallavolo, che è un modo stringato per intendere il mio rapporto con la pallavolo.

Una premessa: di pallavolo non so quasi niente, e quando guardo una partita ricorro spesso – via messaggini – alla mia amica Erica, che della pallavolo conosce a menadito le regole, è persona paziente, e mi spiega ciò che non so. Cioè quasi tutto.

Eppure, la mia ignoranza pressoché assoluta non mi impedisce di emozionarmi come un ragazzino, quando guardo giocare la nazionale. Ed è proprio da qui che voglio far partire un piccolo ragionamento.

Capire, tifare

Come molti di voi sapranno, nelle scorse settimane si sono svolti prima i campionati mondiali di pallavolo maschile, che abbiamo vinto. Poi quelli femminili, dove abbiamo guadagnato una medaglia di bronzo.

Non sono nazionalista, e non ho mai capito perché – ad esempio – chi tifa una determinata squadra di calcio, e magari passa un intero campionato insultando i giocatori più rappresentativi delle altre squadre, quando ritrova i suddetti giocatori vestire la maglia della nazionale diventa di colpo un loro acceso tifoso. Mi pare una schizofrenia non di poco conto.

Non conoscendo io la pallavolo, e non tifando per nessuna squadra di club, posso dunque godere del privilegio di fare il tifo per le due nazionali. Su quella maschile cosa dire? Il mister, Ferdinando “Fefè” De Giorgi, è uno dei protagonisti della cosiddetta Generazione di fenomeni, di cui da ragazzo non perdevo una partita. Ed esprime una simpatia e una flemma rare, in virtù delle quali guida con mirabile equilibrio (e con risultati che parlano da sé) una compagine in cui si sprecano i talenti.

Poi c’è la nazionale femminile, in cui Paola Egonu rischia sempre – per eccessi tecnici ed estetici – di oscurare le compagne. Anche se Miriam Sylla, con il suo splendido atteggiamento da bulla di periferia, è altrettanto irresistibile.

Tuttavia il mio idolo è un altro, e ve ne parlerò a breve.

Ora quello che vorrei dirvi è che nella mia pallavolo non c’è scienza ma passione. Ripeto: conosco solo le regole basilari, ogni tanto quando viene fischiato un fallo non ne capisco il motivo (e chiedo a Erica). Però mi diverto, patisco, tifo, e dopo la sconfitta della nazionale femminile in semifinale contro il Brasile sono andato a letto con una tristezza senza soluzione.

Ma quanto è lecito tifare senza capire? Questo, in fondo, è ciò che mi domando quando seguo la pallavolo, la mia pallavolo.

E forse il discorso si può estendere a qualunque disciplina: visitano i musei semianalfabeti che si fanno suggestionare dagli accostamenti cromatici delle opere, confondendo Caravaggio con Kandinsky, e raffinati critici d’arte.

Più io conoscessi la pallavolo, e più probabilmente diventerei un osservatore attento, critico. E magari un tifoso meno ingenuo ed acceso.

Allora mi viene da pensare che, forse, la mia pallavolo mi va benissimo così. In una vita in cui sono chiamato (siamo chiamati) a sciorinare continue competenze, a un continuo aggiornamento (ma perché, poi? Gli altri animali non ripetono sempre i medesimi gesti?), dicevo che in un simile contesto ho bisogno di guardare la pallavolo con lo stesso sguardo di mia figlia.

Ho bisogno che la mia pallavolo sia incoscienza, sorpresa, sogno.

Moki De Gennaro

Però, nonostante tanta ignoranza, ho capito chi è l’idolo della mia pallavolo. Si chiama Monica “Moki” De Gennaro, ed è il libero – ma non si dovrebbe dire la libera? – della nazionale femminile italiana.

Piccola (rispetto alle compagne), lo sguardo sempre concentrato-incazzato, Moki ha doti soprannaturali sia per quanto riguarda il senso del piazzamento che la difesa.

Fa recuperi straordinari, e ogni volta che non risponde a una schiacciata a velocità supersonica che cade a dieci metri da lei (e che quindi nemmeno un supereroe della Marvel avrebbe intercettato) si rammarica con se stessa come se avesse commesso il più banale degli errori.

Lo so che non c’entra niente, ma la sua intelligenza e abnegazione mi ricordano l’ultimo grande capitano della mia Sampdoria, Sergio Volpi.

Pensate che bello: se conoscessi meglio la pallavolo, questo paragone mi sembrerebbe ridicolo. Adesso invece mi pare calzante, mi piace da matti e me lo tengo stretto.



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Claudio Bagnasco
Claudio Bagnasco è nato a Genova nel 1975. Suoi brani narrativi e saggistici sono apparsi su vari blog e riviste. Ha pubblicato alcuni libri, tra cui i romanzi "Silvia che seppellisce i morti" (Il Maestrale 2010) e "Gli inseguiti" (CartaCanta 2019), e la raccolta di racconti "In un corpo solo" (Quarup 2011). Ha curato il volume "Dato il posto in cui ci troviamo. Racconti dal carcere di Marassi" (Il Canneto 2013). Il 31 ottobre 2019 è uscito il suo saggio "Runningsofia. Filosofia della corsa" (il Melangolo, seconda edizione 2021). Con Giovanna Piazza ha ideato e cura il blog letterario "Squadernauti". Ha ideato Bed&Runfast, il punto d'incontro fra il mondo del podismo e quello delle strutture ricettive. Ha raccolto parte delle sue scritture nel sito personale claudiobagnasco.com. Dal 2013 abita a Tortolì, dove gestisce un B&B con la sua compagna, corregge testi, insegna le parole difficili a sua figlia e corre.