Una recensione tira l’altra, e così è da febbraio che questo spazio non ospita una mia riflessione diciamo tra il podistico e l’esistenziale.
È tornato il momento propizio, non solo visto il lungo silenzio sull’argomento, ma considerato anche il fatto che ho bucato la maratona di Milano. Correndola sotto il ritmo sperato? No: non correndola proprio.
La mia mancata partecipazione a Milano Marathon mi ha suscitato alcuni pensieri, riassumibili con il fatto che quando si fallisce è bene adoperare la parola giusta: fallimento, appunto.
La mia non Milano Marathon
Antefatto del fallimento: perché non ho corso la Milano Marathon? Che pure, almeno nelle prime settimane, stavo preparando dignitosamente.
Perché a un certo punto, in parallelo all’aumentare dei chilometri, sono inopinatamente aumentati alcuni miei impegni: alcuni erano prevedibili, altri no, e non tutti sono stati piacevoli.
Ora. Ritengo che, a prescindere dal proprio valore atletico, la preparazione di una gara regina sia una cosa seria, per il tempo e le energie che richiede. Certo, sempre che si voglia fare le cose per bene (ma preparare e correre una maratona tanto per fare sarebbe veramente una bellissima occasione sprecata).
Non ci si deve limitare a quattro o più allenamenti settimanali, ma bisognerebbe anche alimentarsi correttamente e, insomma, mantenersi nella miglior condizione psicofisica possibile. Riposando e recuperando tra un’uscita e l’altra, sì, ma cercando pure di tenere la mente sgombra, leggera, rivolta con fiducia all’obiettivo podistico.
Cosa che, per quanto mi riguarda, era diventata impossibile. E così, durante gli amati-odiati lunghissimi, la testa ha ammutinato una, due, tre volte.
Fino a quando, inevitabilmente, non ho ammutinato io, decidendo che non sarei stato sulla linea di partenza domenica 7 aprile.
Un fallimento è un fallimento
Diciamo che, tra i molti pensieri sviluppati dopo la rinuncia alla maratona di Milano, due si sono divisi il ruolo da protagonista.
Uno è questo: un fallimento è un fallimento. Niente di più, d’accordo, ma allo stesso tempo niente di meno. Un fallimento non si può travestire da vittoria, neanche parziale, ma lo si deve assumere ed elaborare per ciò che è.
Sapendo, è superfluo aggiungerlo, che ogni fallimento va relativizzato, e che una mancata partecipazione a una maratona non fa di me, o di nessun altro nella mia situazione, una persona da rigettare lontano dal consorzio umano. Però è un fallimento, e buona norma sarebbe, quando si fallisce, domandarsi che parte di responsabilità si abbia, e cosa si è imparato.
Personalmente, ad esempio, ho capito che ogni amatore non può mai dire di essere pronto per una gara regina sino al giorno prima, perché troppe sono le variabili anche improvvise che possono mandare per aria una preparazione.
Fallimento sì, ma
Però va aggiunta una considerazione, che poi corrisponde al secondo pensiero principe sulla questione.
Ve lo confesso: ho vissuto la mia rinuncia a Milano Marathon più come una liberazione che non come una scelta dolorosa. Quando un periodo è straordinariamente colmo di cose da affrontare, senza indulgere in sentimentalismi bisogna levare di mezzo le meno indispensabili. E, evitando di scendere in dettagli sulla mia vita privata, vi assicuro che la maratona era la meno irrinunciabile delle faccende.
Da tutto ciò, forse, si può trarre una piccola morale, o magari se ne possono trarre addirittura due. La prima è che, perbacco, questa è l’ennesima dimostrazione di quanto corsa e vita siano intimamente connesse.
La seconda è che, per quanto sia buona norma correre con la massima dedizione (perché solo così la corsa ci schiude i suoi segreti), è bene ricordarsi che – proprio in virtù di questa intima connessione – il ritmo della corsa e quello della vita devono essere il medesimo. Se la vita ci chiede di rallentare, non possiamo non rallentare anche nella corsa.
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