Non so quanto caldo faccia dalle vostre parti, né a che ora andiate a correre d’estate.
Abito a Tortolì dal 2013, corro con una certa continuità dal 2015, e da allora ogni estate entro – o meglio, entravo – in una condizione di panico irrisolvibile. Perché qualunque allenamento, diciamo almeno dai primi di luglio ai primi di settembre, mi riusciva penosamente difficile.
C’era un motivo. Aveva tentato una sola volta di correre a digiuno, con esiti catastrofici. Lo credo: si era ospiti di una coppia che per il loro matrimonio aveva radunato gli amici sparsi qui e là per il mondo, ospitandoli in un bellissimo cascinale nei pressi del Ticino.
Chissà perché, all’alba di una mangiata pantagruelica, mi era presa la voglia di fare una corsetta in una bellissima pista ciclopedonale che costeggiava il fiume. Niente di che: sei chilometri a ritmo davvero blando. È stato un incubo di cui vi risparmio i dettagli.
Quell’unica, nefasta esperienza mi ha dunque tenuto lontano dalle corse mattutine a stomaco vuoto per anni. E questo, in estate, era un bel problema. Perché ho necessità di almeno un’ora e mezza per digerire la colazione. Facciamo due conti: quando anche puntavo la sveglia alle 5.00, tra il prendere coscienza di essere vivo, la toeletta e la colazione, terminavo l’ultimo sorso di caffè non prima delle 5.30. Questo significava non poter correre prima delle 7.00, rientrando a volte oltre le 8.00: troppo tardi. Troppo caldo.
A distanza di anni, vinto lo spauracchio del Ticino, ho riprovato a correre a digiuno (una mattina di luglio della scorsa estate che ricordo ancora) e tutto è filato liscio.
Da quella volta godo di tre grandi vantaggi: ho guadagnato quasi un’ora di sonno e altrettanto sull’orario in cui esco di casa. Infine, cosa non piccola, la sensazione di leggerezza di una corsa a stomaco vuoto è impagabile.
Mentre la città dorme
Fulvio Massini e gli altri grandi allenatori dicono che si può tranquillamente correre in estate senza aver fatto colazione per circa un’ora, dopo di che è bene integrare. Personalmente, con un gel e due borraccette d’acqua sono riuscito ad arrivare anche a 24 chilometri senza troppa fatica. Ma non è questo il punto.
Il punto è che, dalle 6.00 alle 7.00 del mattino, va da sé che in strada non ci sia nessuno. Tranne chi corre.
È entusiasmante, ogni estate, imbattersi per via nelle solite tipologie umane. Ci sono, naturalmente, i volti noti. Ovvero i residenti che amano correre e i turisti che ogni anno replicano le vacanze dalle mie parti, e conoscono a memoria tutti i percorsi.
Poi ci sono gli incontri occasionali, ossia i turisti che sono qui in ferie e chissà se ritorneranno. E allora li si spia, e a seconda del loro passo e della loro postura si adotta uno dei comportamenti che compongono la tavolozza del podista (siamo tremendi, quando vogliamo). Si va dall’indifferenza alla compassione, dall’ammirazione estatica alla volontà strenua di instaurare un dialogo. Ma non è nemmeno questo, il punto.
Ecco il punto
Il punto è l’appropriazione del suolo pubblico da parte di persone che da lì a un paio d’ore, dopo la doccia e la colazione, saranno impegnate ciascuno nel proprio mestiere; o, beato chi può permetterselo, nel ruolo di turista.
Tutti saremo tornati a fare i cittadini, ciascuno con la divisa idonea al ruolo che riveste: giacca e cravatta, vestiti informali o addirittura costume da bagno e infradito.
Ma prima, nel segreto dell’alba, questi stessi diligenti personaggi hanno violato il silenzio domestico, si sono buttati sulle strade deserte, hanno faticato senza altro scopo se non quello di faticare, nell’incrociarsi si sono scambiati un breve cenno di saluto – senza compiacimento, ché il fiatone e l’impegno non lo permettono – e hanno proseguito per la loro strada, esausti e felici, pieni di quell’entusiasmo senza obiettivo che dà la corsa. E che, verrebbe da dire se non si rischiasse di essere retorici, dovrebbe dare anche la vita.
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