– Come va?
– Benone, dai.
– Ingrassato?
– No.
– Depresso?
– No.
– Ma allora stai correndo!
– Sì.
– Maledetto.
– …
– E come fai?
– Come se tu non lo sapessi. Corro in un tracciato attorno a casa: è un anello di nemmeno un chilometro, metà su asfalto e metà su strada bianca.
– Ma: se tutti quanti facessero come te?
– Guarda che tutti quanti, qui, fanno come hanno sempre fatto.
– Nel senso che?
– Nel senso che abito, caro coinquilino, nella zona periferica di un paese poco popolato, e facendo questo percorso incrocio le stesse persone che incrociavo quando mi capitava di farlo, questo percorso, prima che scoppiasse il casino che è scoppiato.
– E cioè? Quante persone?
– Nessuna, finto tonto. Una, al massimo, una volta. Cani randagi, quelli sì: molto allenanti, per chi non li conosce e si mette a scappare in preda al panico. Ma sono cani di pastori: grandi, grossi, sporchi e innocui.
– E com’è, correre in questo periodo?
– Brutto.
– Brutto?
– Brutto. Per tre motivi. Perché non ho l’obiettivo di una gara, perché in un percorso breve e tutto curve ci si allena come ci si allena, e poi perché sono debole.
– Debole?
– Debole. Psicologicamente. Siccome, pur non facendo del male a nessuno, se in questi giorni corro mi sento a disagio.
– Cioè?
– Cioè, avrei scommesso di essere più autonomo, meno influenzabile, di quanto in realtà io stia dimostrando di essere. Ma parliamo di corsa.
– Sì, parliamo di corsa. E di cosa, nello specifico, che riguarda la corsa?
– Per esempio, del fatto che la mia risposta di un attimo fa era parziale. Correre in questo periodo è anche stranamente e dolcemente liberatorio. Senza gare da preparare e obbligati in percorsi disagevoli, si scopre la natura più profonda della corsa. Che, se fatta al riparo da tutti e da tutto (obiettivi compresi), torna a essere ciò che è: un gesto. Primitivo, essenziale.
– Hai un’inclinazione al sermone, lo sai?
– Sì. E tu all’interrogatorio.
– È il mio mestiere, diciamo così. E poi?
– E poi cosa?
– Dicci qualcos’altro su questo tuo periodo.
– Di inerente alla corsa, però. Ho un’inclinazione alla salvaguardia della mia privatezza ancor più spiccata di quella al sermone.
– Privatezza?
– Sì, privatezza. Perché dovrei dire privacy quando posso adoperare l’equivalente in italiano?
– E questo cosa c’entra con la corsa?
– Primo: rispondevo a una delle tue solite domande. Secondo: c’entra eccome, se vogliamo. E sai perché?
– Qui le domande le faccio io.
– Questa l’ho già sentita. Comunque: perché a me piacciono le cose fatte bene. Con serietà, con sobrietà. Dunque, così come non adopero termini inglesi quando non è necessario – adoperare termini inglesi quando non è necessario è pratica riservata a tre categorie di persone: gli snob, gli ingenui e i provinciali, – allo stesso modo, nella corsa, non mi interessa ciò di cui non c’è bisogno.
– E di cosa non c’è bisogno, nella corsa?
– È più facile dirti di cosa c’è bisogno.
– E dimmelo.
– Di correre. E basta.
– Ma se prima mi hai detto che per te correre, in questo periodo in cui la corsa è solo corsa, è brutto per tre motivi!
– Ma ho anche ammesso di essere debole. Dunque.
– Dunque?
– Dunque aspiro a correre per il solo gusto di correre, ma non riesco a non essere attratto anche da alcune sciocchezze collaterali: le gare, gli allenamenti strutturati, la ricerca del miglioramento cronometrico… Le prestazioni, insomma.
– E che male c’è?
– Mi sembrano peccati di gioventù, rispetto alla bellezza grande e spaventosa della corsa per la corsa.
– E quando finirà tutto questo casino?
– Mi riscriverò a qualche gara, ricomincerò con le ripetute, i progressivi, i fondi medi, i lunghissimi… E ogni tanto mi ricorderò di ciò che avrei potuto essere ma non sono. Mi salva il fatto che comincio a essere troppo vecchio per restarci davvero male.
– La tua inclinazione al sermone…
– Devi sopportarmi: ci tocca stare assieme per tutta la vita. Uh, c’è un’ultima cosa.
– Quale?
– Inclinazione al sermone. Non senti? Io, caro scrittore, avrei evitato il bisticcio: -one/-one.
– Ma vaffanculo.
– Sei nervoso. Ti porto a fare una corsa.
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