Oggi non so cosa scrivere.
A parte il titolo che, se fosse quello di un romanzo, sospetto che assicurerebbe ingenti vendite (ci penserò per il futuro), nel mio caso attuale il non sapere cosa scrivere corrisponde semplicemente a verità.
Tengo questa rubrichina settimanale dal novembre del 2018, e non credo di aver saltato nemmeno un lunedì. Non faccio ferie da secoli, c’è un gran caldo, sono stanco, e davvero: non ho in mente nessun argomento. Mi sia concesso, una volta ogni tre anni (o poco meno).
È come quelle volte in cui
È come quelle volte in cui, anche se magari si deve affrontare un allenamento semplice e breve, ci si sente svuotati di ogni energia e voglia, e ci si domanda chi mai ce lo abbia fatto fare a sceglierci uno sport così faticoso, così insensato.
Certo, qui a mancare sono le idee mentre là è la volontà, ma la matrice è comune: si sta facendo qualcosa che appare lontanissimo da noi.
Però poi si prende coraggio e la si fa ugualmente: là mettendo un piede dopo l’altro, qui pigiando un tasto dopo l’altro. Finché non abbiamo coperto i chilometri, o il numero di battute, prestabiliti.
E nella scrittura come nella corsa, mi pare che procedere senza energie né obiettivi riveli qualcosa di straordinario. Si riesce cioè a scoprire la natura più intima del gesto, sia esso il correre o lo scrivere.
Come se si corresse o scrivesse, non so dirlo meglio di così, finalmente senza di noi.
Iniziando un allenamento con la voglia sotto i tacchi (ma forse, trattandosi di corsa, avrei dovuto scegliere un’altra metafora), piano piano il fisico si riscalda, i battiti aumentano e op là, si è di nuovo dentro il mistero della corsa. Un passo, un altro passo, senza velleità, senza urgenze. Si sente questa cosa che è il correre, e che ci sta portando un metro, dieci metri, un chilometro più avanti.
Poi si rientra a casa, ci si fa la doccia, e in quello stato di benefica stanchezza non si pensa alla velocità tenuta ma al fatto che l’allenamento doveva essere fatto, perché c’è sempre qualcosa di bello e di giusto nell’insensatezza della corsa. Ma cosa?
È come quelle volte in cui
È come quelle volte in cui devi redigere un articolo per la rubrica settimanale e non sai proprio cosa dire, ma si comincia a scrivere ciò che passa per la testa. Certo, mantenendo un certo rispetto per sé e per i lettori, dunque non infilando una serie di parole in ordine casuale ma cercando di organizzare un discorso consequenziale e magari nemmeno noioso.
E così, parola dopo parola, si arriva in fondo all’articolo, e in quello stato di benefica stanchezza che subentra alla scrittura ci si rilegge, e non si pensa a ciò che è stato scritto ma al fatto che l’articolo andava approntato, perché c’è sempre qualcosa di bello e di giusto nell’insensatezza della scrittura. Ma cosa?
Senso e ritmo
Diciamocelo: a vedere le cose in una prospettiva un po’ meno miope, diciamo una prospettiva lunga tutt’una vita, le cose piene di senso e quelle prive vengono inghiottite allo stesso modo, alla fine, e le prime – prese tutte assieme, eh! – non fanno guadagnare nemmeno mezza giornata di esistenza supplementare.
Allora, forse, a riguardare al vuoto di senso di una corsa, e al vuoto di senso di una pagina, si scopre che rimane… che cosa? Rimane il rumore dei passi sulla strada, rimangono i suoni delle parole (o il loro significante, se volete far bella figura in società). E sono quelle le sensazioni più nitide, vivide, fisiche. Il resto non è che l’insieme dei nostri ragionamenti.
E così stai a vedere che, nella vita, le cose più vere sono quelle che obbediscono a un ritmo, più che a un senso.
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