Sto scrivendo queste righe da Budapest, dove mi sono concesso – con la mia famiglia e una di cari amici – una breve vacanza.
La città non mi è piaciuta per niente. E non dimentico che questa non è una rubrica di consigli di viaggi: portate pazienza e abbiate fiducia, ho un ragionamento da condurre, e devo cominciare da qui (o forse lo avevo cominciato lo scorso anno).
Budapest è diventata una città cara in modo sfacciato e talvolta insensato. Sembra davvero, spiace dirlo, un grande parco giochi a uso dei visitatori più ingenui, che la prendono d’assalto e accettano ogni gadget e leccornia collegata alle varie attrazioni. E domandarsi quanta responsabilità abbiano i turisti e quanta la città medesima, in questa metamorfosi che sembra aver privato Budapest di ogni identità, è tanto arduo quanto (forse) inutile.
Certo, restano i monumenti, ma resta anche e soprattutto la sensazione di una cultura composita, indefinita, senza nostalgia per il passato e senza una sicura proiezione nel futuro.
Poi però ci sono state le mie due corse lungo il Danubio.
Correre a Budapest, nonostante tutto
Nei quattro giorni di permanenza a Budapest ho fatto due brevi corse, di otto chilometri l’una. Non di più, già, per due motivi: perché avevo bisogno di riposare, e non volevo che si cominciassero i nostri giri troppo tardi, in funzione dei miei allenamenti (la regola aurea dei podisti amatori, per non essere relegati ai margini della società, è quella di fare in modo che la corsa incida il meno possibile nell’organizzazione quotidiana altrui).
E poi perché, partendo dall’appartamento dove abbiamo soggiornato, non era troppo agevole raggiungere il Danubio (uno dei pochissimi luoghi, assieme a un paio di parchi, dove nella capitale ungherese si può correre per un buon numero di chilometri in assoluta tranquillità). Mi occorrevano una quindicina di minuti per raggiungere l’argine del fiume, e quindi torniamo al problema numero uno.
Eppure eppure eppure. Mi sono bastate quelle due brevi uscite per riconoscere la bellezza autentica, nascosta (o meglio sepolta) della città. Dalle sette alle otto del mattino esiste ancora la vera Budapest, silenziosa, maestosa, la cui luce bianca sembra dare un senso più profondo a ogni pieno e ogni vuoto. E allora non ho potuto fare a meno di pensare a quanto sia bello correre, a come – l’ho dimostrato con la mia esperienza concreta, non me l’hanno raccontato – non solo la corsa nasconda i suoi prodigi, ma lo stesso faccia il mondo. Sotto le vesti di una città a uso dei ricchi occidentali, Budapest sa essere ancora una città di grande e malinconico fascino.
È sufficiente non farsi bastare l’aspetto superficiale e deteriore, non accettare le vie più semplici e rapide, per ritrovare il pulsare del mondo.
La corsa, il mondo
Correre a Budapest, poi, mi ha ricordato come la corsa, proprio lei, sia uno degli strumenti più formidabili per riconoscersi umani e riconoscere la vera natura dei luoghi. Che non vanno frequentati solo per motivi sociali o commerciali (indispensabili entrambi, per carità).
Ma anche per avvertire che vibrano, i luoghi, sono lì da sempre. A prescindere da quanto possano cambiare la topografia e la viabilità, da quanto nuovi monumenti e attrazioni possano prendere il posto di quelli vecchi.
Insomma: la corsa ha una duplice, mirabile funzione. Quella di farci percepire il nostro nucleo più autentico, più schiettamente umano. E quella di mostrarci l’essenza dei luoghi che via via i nostri luoghi calpestano. La consonanza dei due piccoli miracoli dovrebbe farci sentire, in un modo ben più profondo di quando prendiamo un caffè al bar o incassiamo un assegno in banca, parte del mondo, corpo piccolo che vibra all’unisono col corpo grande del pianeta che ci ospita.
E vi sembra poca cosa?
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