Ogni atleta amatore che, a prescindere dai risultati che ottiene, pratichi la propria disciplina con una certa dedizione, si convince che solo e soltanto lo sport che frequenta abbia in sé una mistica tale da elevarlo da semplice attività ginnico-ricreativa a strumento di dialogo con l’assoluto.
Noi podisti (e, peggio ancora, noi maratoneti) in questo siamo forse imbattili. Ma chi scrive ha, tra gli amici fraterni, un discreto tennista amatore, e dai molti dialoghi consumati davanti a una birra è emerso come anche loro, i tennisti, quanto a passione-ossessione, mica scherzano.
Accomuna i due sport la ripetizione compulsiva del gesto – mettere un piede avanti all’altro, gettare la pallina al di là della rete – che si protrae per ore. Attività che, non c’è dubbio, conduce all’abbrutimento o al cospetto della divinità.
Scherzi a parte, sport che impongano una concentrazione e un dispendio di energia così prolungati, provocano in chi li pratica un’inevitabile discesa nel proprio nucleo più intimo. Un’uscita dal frastuono del mondo per ritrovarsi di fronte ai propri limiti e alle proprie paure, ma anche di fronte a inopinate risorse e a riserve di energie che, nella quotidianità, dubiteremmo di avere.
Tennis batte Cartesio
Il rapporto tra una tennista dilettante e il proprio sport è raccontato con acutezza e commendevole autoironia da Laura Salmon, che per il melangolo ha dato alle stampe Tennis batte Cartesio. Sull’arte del diletto e la rivincita esistenziale (marzo 2022).
Salmon insegna Slavistica e Teoria della traduzione all’Università di Genova. Il suo ruolo di docente, oltre a garantirle una scrittura felice, le permette di istituire un gustoso parallelismo tra l’apprendimento delle lingue e quello della pratica tennistica.
Ma sono gli aspetti più strettamente autobiografici che fanno di Tennis batte Cartesio una divertita confessione in cui molti sportivi amatori potranno ritrovarsi.
L’autrice si inserisce nella sottocategoria faticatori (compresa nella categoria schiappe), composta da coloro per i quali “la competizione è prevalentemente con se stessi” (p. 13). E sarà, questo, il leitmotiv che attraversa l’intero volume.
Il tennis sarà per Salmon uno strumento di progressiva emancipazione dal proprio doppio malefico, che nel caso dell’autrice si cela sotto le vesti della Piccola Fiammiferaia. La quale “ha mantenuto per cinquant’anni un costante e pieno controllo sul mio corpo, cui ha imposto uno spietato regime di disfattismo, indolenza e ogni genere di complessi. In poche parole, è un prodigioso detrattore interiore che, con un palmares di strepitosi successi, attacca la mia autostima per rendermi una lamentosa perdente”, p. 45.
Divertimento? No: diletto
La scoperta del tennis in età matura sarà quindi, come vuole la seconda parte del sottotitolo dell’opera, una “rivincita esistenziale”. Mentre la prima parte, che parla di “arte del diletto”, potrebbe trarre in inganno, ma solo prima di aver letto il volume. Perché la domanda che istintivamente ci si sentirebbe di fare all’autrice è: Cara Salmon, siamo sicuri che ci si diverta davvero, durante la pratica sportiva?
La stessa Salmon ci risponde a p. 147, dove leggiamo che “Il divertimento sta al diletto come una scappatella a una storia d’amore”. Il divertimento è infatti un godimento momentaneo e superficiale, che esclude dalla possibilità di “essere trasportati altrove” (ibid., corsivo nel testo).
Il libro si sdipana tra aneddoti e intuizioni, come quella – quanto comune con il podismo! – secondo cui “giocando a tennis, nei cervelli dei dilettanti si producono gli stessi profluvi endogeni di ormoni e neurotrasmettitori che vengono sintetizzati nei cervelli dei migliori atleti del mondo. Muta, ovviamente, il livello tecnico e atletico, ma non lo spettro delle emozioni vissute, né la loro intensità”, p. 144.
Tennis batte Cartesio è consigliabilissimo a chiunque. Ma soprattutto a due categorie di lettori: agli sportivi amatori di qualunque disciplina, i quali troveranno nel libro un percorso di avvicinamento (e di innamoramento) che difficilmente risuonerà estraneo; e a chi uno sport vorrebbe iniziare a praticarlo, ma ha ancora qualche dubbio o vergogna residui. Perché magari è cresciuto (così sveliamo il perché del curioso titolo dell’opera) “in un mondo cartesiano in cui si potava per una sola tra due realtà parallele: quella dell’intelletto (la res cogitans) e quella del corpo (la res extensa). Tertium non datur” (p. 59, corsivi nel testo).
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