Di solito, per sottrarre il calcio a un immaginario snobistico che lo vuole spettacolo triviale destinato a un pubblico rozzo e immaturo, si cita Pier Paolo Pasolini, appassionato di questo sport (anche attivamente, come testimoniano diverse foto rinvenibili in rete).
Inutile dire che una disciplina nobile e poetica come il football non ha bisogno di giustificazioni intellettuali, né si deve confondere il calcio con le sue degenerazioni populistiche e consumistiche.
La categoria del tifoso, di questo sport come di qualunque altro, non può che essere trasversale, e a ulteriore testimonianza di ciò Mimesis ha dato alle stampe nel giugno del 2024 Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita. Scritti sul calcio 1979-2004.
Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita
Il volume, a cura (e con una prefazione) di Rodolfo Zucco, come recita il sottotitolo raccoglie tutti gli scritti del poeta, critico e traduttore Giovanni Raboni. Scritti che appartengono a tre categorie: l’articolo di giornale, l’intervista e la poesia.
Il libro, dotato di un apparato critico forse ipertrofico (prende quasi la metà delle 140 pagine), è una piacevolissima lettura, che restituisce il calcio alla sua dimensione epico-popolare.
Raboni, tifoso dell’Inter, racconta dei suoi anni allo stadio in compagnia di Vittorio Sereni, abitudine che – col passare del tempo – ha lasciato posto alla visione domestica in casa di un altro poeta, Maurizio Cucchi. E ci consegna alcuni spunti di riflessione tutt’altro che banali.
Il tifoso
In più di un testo di Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita Giovanni Raboni si interroga sulla propria appartenenza alla categoria del tifoso, e indaga la parola anche da un punto di vista etimologico.
Ma la frase forse più persuasiva è in una risposta data a Piero Lotito durante l’intervista pubblicata poi da Il Giorno il 26 gennaio 2004. Alla domanda “Perché le piace il calcio?” (p. 78) Raboni ribatte: “Ogni tanto me lo chiedo. Quella per lo sport è una passione veramente gratuita: non ha senso. Penso al ciclismo: il Tour de France mi affascina. Una volta avevo persino il progetto di seguirlo. Credo proprio che, in generale, una spiegazione possibile della passione sportiva negli intellettuali stia nella gratuità: è passione pura” (ibid.), dove l’unica stonatura è l’accenno conclusivo agli intellettuali, come se la pura passione non potesse attecchire anche altrove.
Il grande gesto
Nella stessa intervista brilla la risposta alla domanda “Perché i grandi gesti sono così rari?” (p. 80). E Raboni: “Perché in giro c’è poca immaginazione. Per fare i grandi gesti occorre un’altezza intellettuale che non mi pare sia merce corrente. Oggi si guarda molto all’immediato, mentre il grande gesto si fa nel vuoto, con la capacità di immaginare il risultato” (ibid.).
L’intuizione di Raboni crea un collegamento implicito con la poesia Ah suonatori di piffero… (p. 53), dedicata – come leggiamo nell’ultimo verso – a “l’imponderabile Baggio”.
Le questioni del calcio
Ma in Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita Raboni ragiona anche su questioni concrete intorno al calcio e al suo universo.
Come quando, per esempio, si domanda perché uno sport “che ha tanta importanza nella vita sociale e più ancora in quella onirico-simbolica degli italiani, abbia dato sinora così scarsi risultati nel campo dell’arte e della letteratura” (p. 59).
O quando illustra la differenza tra assistere a una partita dal vivo o in televisione: “ […] ciò che succede su uno schermo televisivo è come se, in un certo senso, fosse già successo: un passaggio sbagliato, un’occasione da gol sprecata assumono immediatamente il colore, il timbro dell’irrimediabilità; li vedi e li stai già rivedendo, già li rimpiangi, li commemori. Mentre nel corpo a corpo con i ‘fatti’ sembra che ci sia rimedio a qualsiasi errore, che tutto sia ancora fluido, non finito, plasmabile…” (p. 61).
Suggestivo, infine, l’augurio che Raboni formula tra il serio e il faceto. Traendo spunto dalle svariate trasmissioni televisive dedicate al calcio, zeppe di esperti, si potrebbe pensare a qualcosa di simile per la letteratura: “Al posto degli arbitri a riposo, si potrebbero chiamare dei funzionari editoriali in pensione; al posto degli ex giocatori, degli scrittori e dei critici ritiratisi dall’agone per eccesso di probità o di valore. E invece dei risultati delle partite potrebbero scorrere in sovrimpressione, da commentare e discutere, le classifiche dei libri più venduti” (p. 72).
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