Ogni podista ha il proprio allenamento preferito: il mio, non ne ho mai fatto mistero, è rappresentato dalle ripetute col recupero a ritmo maratona.
Il brutto è che ogni podista ha anche un allenamento che detesta più di ogni altro, e che gli fa passare delle ore turbolente il giorno prima di svolgerlo (e magari anche la notte). Personalmente detesto le ripetute sui 400 metri, che ho affrontato lo scorso mercoledì. E su cui ho voglia di fare qualche piccolo ragionamento.
Le odiose ripetute sui 400 metri
Il primo, più che un ragionamento, è il tentativo di rispondere alla domanda che tutti i lettori immagino si siano fatti: Perché non sopporti le ripetute sui 400 metri?
Non lo so con certezza. Ma mi sono dato questa spiegazione: le ripetute sui 200 metri sono così brevi che, per quanto si fatichi a farle, le si comincia e sono già finite. Dai 500 metri in su, invece, si è consapevoli di affrontare tratti che non si consumano con un gesto immediato: è quindi bene partire forte, ma non al massimo, sapendo che per correre (poniamo) dieci tratti di mezzo chilometro l’uno, c’è bisogno di tante energie. Mentre le ripetute sui 400 metri sono un tremendo ibrido: la mia mente e il mio fisico non riescono a non interpretarle come ripetute brevi, ma quando guardo l’orologio GPS già sfinito leggo con raccapriccio che mancano ancora, che so, 120 metri alla fine del tratto. E il recupero tra una e l’altra mi sembra immancabilmente troppo risicato.
Ripetute sui 400 metri e psicologia: capitolo uno
Prima dimostrazione di quanto conti la testa nella corsa, qui applicata alle ripetute sui 400 metri. Ogni volta che non sto preparando una gara e mi impongo i 400, li corro per dodici volte, ormai da anni. E li patisco perché il numero di ripetute e la loro lunghezza danno vita a un mostro ai miei occhi invincibile.
Invece, le volte che Fulvio Massini i 400 me li piazza in un programma di allenamento, ecco che si limita a dieci ripetute, e l’allenamento assume subito sembianze umane.
Non ho le prove, ma sono convinto che se io avessi eletto a mio standard quattordici, e non dodici, ripetute sui 400, e Fulvio me ne piazzasse dodici e non dieci nel programma, ebbene, avrei percepito come fraterno l’allenamento che oggi detesto cordialmente.
Ripetute sui 400 e psicologia: capitolo due
Quando lo scorso mercoledì ho affrontato i miei 400 è successa una cosa: nel tratto di andata, mi pare fossi alla terza ripetuta, ho incrociato un podista che andava come un treno. La sua corsa era leggera, coordinatissima, e non oso pensare a quale velocità stesse viaggiando. Ci siamo salutati con uno squillante ciao, e l’averlo incontrato ha moltiplicato le mie energie. Ma c’è di più.
Nell’ultimo lungo rettilineo verso casa, ero nel recupero tra l’ottava e la nona ripetuta, l’ho rivisto da lontano. Nel frattempo il GPS ha trillato, ho iniziato il tratto veloce, lui si è avvicinato col suo ritmo forsennato e io, anziché risalutarlo come all’andata, ho allungato d’istinto la mano verso di lui, che – come si suol dire – mi ha battuto il cinque.
Chissà perché mi è venuto da fare così. Forse per rendere ancora più intima la condivisione della fatica, o forse – non escludiamolo – per un infantile moto d’orgoglio. Per illudermi, cioè, di essere della sua genìa.
Quello che so è che, dopo averlo incrociato per la seconda volta, ho letto la mia velocità sul quadrante dell’orologio. Ebbene: senza percepire alcuno sforzo aggiuntivo, sospinto dalla piccola esaltazione per l’incontro, ho corso quella ripetuta impiegando quasi cinque secondi in meno delle altre (e quasi cinque secondi in meno sui 400 significano quasi dodici secondi in meno al chilometro).
Tutto questo per dire – anche – quanto conti, e quanto sia allenabile, la testa nel podismo.
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