Benché mi sia sempre dichiarato irrimediabilmente monogamo nei confronti della corsa su strada, non fatico a riconoscere la straordinarietà dei campioni della cosiddetta corsa in natura. Da tempo affascinato dalla figura di Bruno Brunod, mi sono ritrovato quasi automaticamente a seguire le gesta di Kilian Jornet, che il 21 agosto del 2013 ha polverizzato il record di salita e discesa del Cervino, in precedenza appartenuto proprio a Brunod.
Chi è Jornet
Kilian Jornet è un giovanotto catalano nato nel 1987 che, per darvi un’idea, ha affrontato il suo primo 4000 a sei anni. Atleta poliedrico, Kilian è stato più volte campione del mondo di sci alpinismo e di skyrunning, detiene il record di scalata di svariate vette ed è un ultramaratoneta di vaglia. Nonostante la sua (spesso e volentieri ribadita) inclinazione alla solitudine, Jornet è ormai un personaggio piuttosto noto al grande pubblico, specie dopo alcuni suoi gesti recenti che hanno avuto una certa eco mediatica; come quello di farsi fotografare nudo sulla cima del Monte Bianco e pubblicare l’immagine sul proprio profilo Twitter con l’eloquente didascalia: “Bref, si on grimpe coté italien c’est legal?” (“Insomma, se si scala dal versante italiano è legale?”, in risposta polemica al sindaco di Saint-Gervais-les-Bains, che aveva stabilito con un’ordinanza l’obbligo di un equipaggiamento minimo per l’ascesa partendo dal comune che amministra).
Niente è impossibile
Jornet, persona colta e in grado di parlare fluentemente diverse lingue, ha dato alle stampe un’autobiografia, ora presentata ai lettori italiani da Solferino (2019, traduzione di Roberta Bovaia): Niente è impossibile. Il più grande mountain runner del mondo si racconta.
Il volume ripercorre un buon numero di episodi salienti della carriera sportiva e della vita di Kilian, col sottofondo-ossessione della vetta più alta del mondo, l’Everest, al quale sono dedicati quattro brevi capitoli, uno per ciascuna delle stagioni.
Più che passare in rapida rassegna alcune delle imprese citate nel libro, conviene forse concentrarci sullo spirito dell’opera. Noi amatori, specie se votati agli sport di resistenza, sappiamo bene che due fattori ci differenziano dai campioni: le doti fisiche, certo, ma anche la capacità (oltre che la possibilità, va detto) di immergerci completamente nella disciplina praticata. Ebbene, non c’è pagina di Niente è impossibile da cui non traspaia come per Jornet ci sia una perfetta coincidenza tra vita e attività fisica: quest’ultima è fonte di conoscenza, misura di sé e del mondo nonché strumento di investigazione degli umani limiti.
Da ciò deriva una serie di ragionamenti tutt’altro che banali sullo sport come atteggiamento esistenziale: si legge, ad esempio, che le sue sono sempre scelte e mai sacrifici; che il mettere a repentaglio la propria vita per scalare montagne probabilmente ha poco di eroico e molto di attribuibile al narcisismo e alla stupidità; che, sempre per sfatare il mito dello sportivo-eroe (con tutti i rischi che conseguono all’elezione di tale figura, dal doping all’imitazione dissennata da parte degli amatori), sarebbe magari il caso di eliminare le classifiche e i podi, restituendo alla pratica sportiva la sua caratteristica essenziale di attività connaturata in noi; la consapevolezza di godere di privilegi chissà se meritati, grazie al denaro guadagnato con premi e sponsor, contrariamente ai tanti amatori che faticano allo stesso modo non solo senza ricevere denaro, ma semmai spendendolo.
Tuttavia, le riflessioni forse più acute riguardano quella gamma di ineffabili sensazioni provate da chi pratica sport di resistenza, che espongono al limite ultimo di sé, al fallimento, al baratro dell’inconoscibile; che mostrano quel punto di incontro fatato (e fugace) tra massimo sfinimento e massima pienezza di forze, tra polverizzazione della propria identità e senso di presenza autentica nel mondo: “Avevo lo sguardo perso in qualche punto sull’asfalto. La mente svuotata. È in quell’assenza che probabilmente risiede tutta la forza delle attività. Quando le finisci, per un breve lasso di tempo, non esiste più né passato né futuro”, p. 219.