Ho corso

Non so voi, cari podisti.

Non so voi, ma io – per il fatto di correre – non mi sento affatto un eroe. Inoltre non credo che correndo potrò superare qualunque limite (a quarantacinque anni suonati andrebbe già benissimo poter spostare i miei limiti attuali un poco più in là), non ho sempre il sorriso stampato sul volto e non mi sento un privilegiato. Per correre mi sveglio tra le cinque e – quando sono fortunato – le sei e mezza di mattino, e puntualmente dopo le 21 di sera ho un sonno terribile.

Guardo gli amici che fanno altri sport – tennis, calcio, pallacanestro, pilates – e mi sembra che tutti fatichino meno di me. E forse mi sembra anche che tutti si divertano di più, voglio dire in un modo più evidente e pieno, di come mi diverta io correndo.

Non so. Saranno sensazioni passeggere, dettate dalla malinconia (nonché da una certa stanchezza) proveniente da questa maledetta terza ondata di virus. Per colpa della quale mi toccherà rimandare ancora una volta il mio prossimo appuntamento con la maratona, che troppo ottimisticamente avevo fissato per l’inizio di maggio. E che stavolta, per motivi scaramantici, non nominerò.

Eppure

Eppure corro ancora. E addirittura seguo, almeno fino a quando la maratona che non nominerò non verrà ufficialmente annullata, le tabelle del mio allenatore, Fulvio Massini.

Corro ancora e ancora mi ritrovo a sottopormi a questo rituale insensato del provare fatica. Perché io, mentre corro, non si può mica dire che mi diverta davvero. Non mi succede mica come agli amici che praticano tennis, calcio, pallacanestro o pilates.

Domenica scorsa, per dire, ho fatto un bel progressivo di ventotto chilometro. Ma bello perché? Bello durante? Ma no: durante i lunghissimi si passa gradualmente da una sensazione di noia (quando l’andatura tenuta appare troppo blanda) a una sensazione di spossatezza (specie se, come nel mio caso, da un certo punto in poi si accelera). Negli ultimi chilometri non se ne può più, e ci si maledice per aver scelto uno sport così severo.

Bello dopo? C’è da mettersi d’accordo. Dopo si è sfiniti, e se è vero che le endorfine furoreggiano in noi e ci danno la sensazione di un benessere illusorio, dall’altra ci ritroviamo prosciugati di energie, e trascorreremmo volentieri il resto della giornata sdraiati a letto a leggere Tex Willer.

Eppure se corro ancora, e se sempre più persone assieme a me corrono, un motivo ci sarà. E secondo me il motivo sta proprio nell’insensatezza del correre. È questa follia per cui, al sempre troppo cospicuo elenco di doveri che riempiono le vite di più o meno tutti gli adulti, noi pensiamo bene di aggiungere un dovere in più.

Una disciplina sportiva dura, che ci impegna per un buon numero di ore, fomenta i litigi familiari, ci ruba sonno e ci rende magri come acciughe, ci impone di trattenerci dalle bevute smodate – proprio noi, che da ragazzi al sabato sera eravamo i più tremendi! – e ci fa progettare le vacanze in base alle date delle gare.

Il motivo, dicevo, stai a vedere che forse è proprio l’insensatezza del correre: aggiungere fatica alla fatica. Oppure potrebbe anche essere l’esatto opposto, una lucidità estrema. Ovvero la raggiunta consapevolezza che – dal momento che tutto si ottiene faticando; anzi, che faticando parecchio non si è neppure sicuri di ottenere qualcosina – allora tanto vale allenarsi a questa  benedetta-maledetta fatica, provare sul proprio corpo cosa significhi arrivare allo stremo, non per il denaro, non per la gloria, non per un avanzamento sociale, e in questi ultimi mesi nemmeno per una medaglia di latta che ti viene appesa al collo da una ragazza costretta a sorriderti nonostante sia spaventata a morte dal tuo volto scavato, dal tuo sguardo vacuo e dal tuo pallore mortuario.

E forse c’è un altro motivo. Siamo tutti così ansiosi di spendere bene il nostro tempo. Così ansiosi di comunicare agli altri quello che abbiamo prodotto, progettato, escogitato, organizzato. Il lungo e noiosissimo elenco delle nostre presunte conquiste, di cui al massimo può beneficiare il nostro ego.

Saranno pensieri malinconici da terza ondata di pandemia, ma da anziano sogno la scenetta che segue. L’interlocutore che, per valutare la mia qualità umana, mi chiede: “E tu, cosa hai fatto di importante nella vita?”. E io che rispondo: “Ho corso”.

correre


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Claudio Bagnasco
Claudio Bagnasco è nato a Genova nel 1975. Suoi brani narrativi e saggistici sono apparsi su vari blog e riviste. Ha pubblicato alcuni libri, tra cui i romanzi "Silvia che seppellisce i morti" (Il Maestrale 2010) e "Gli inseguiti" (CartaCanta 2019), e la raccolta di racconti "In un corpo solo" (Quarup 2011). Ha curato il volume "Dato il posto in cui ci troviamo. Racconti dal carcere di Marassi" (Il Canneto 2013). Il 31 ottobre 2019 è uscito il suo saggio "Runningsofia. Filosofia della corsa" (il Melangolo, seconda edizione 2021). Con Giovanna Piazza ha ideato e cura il blog letterario "Squadernauti". Ha ideato Bed&Runfast, il punto d'incontro fra il mondo del podismo e quello delle strutture ricettive. Ha raccolto parte delle sue scritture nel sito personale claudiobagnasco.com. Dal 2013 abita a Tortolì, dove gestisce un B&B con la sua compagna, corregge testi, insegna le parole difficili a sua figlia e corre.