Tutta colpa del GPS

Perdonate se ogni tanto cito impunemente il mio podcast sul podismo. Nella cui ultima puntata, che sarà in streaming da martedì 28 marzo, mi sono divertito a improvvisare. E mi sono ritrovato a ragionare intorno a questo mio periodo di scarsa forma, che dura ormai da diversi mesi. Mi resta da capire quanto siano colpevoli gli strascichi fisici della mia sequela di infortuni, e quanto quelli psicologici. Ma non è di questo che volevo parlarvi oggi.

Quanto piuttosto del fatto che, in questo mio momento di crisi di coppia (momento si fa per dire), dispongo della lucidità necessaria per vedere come da fuori non tanto me stesso e la mia relazione attualmente complicata con la corsa, quanto più in generale il rapporto di noi tutti, podisti amatori, con il nostro meraviglioso e pericolosissimo sport.

GPS

I gadget

La corsa è una moda, e ciò è positivo. Ogni podista che – pur lento, scoordinato e con una tecnica di corsa risibile – si mette in movimento, è una persona in meno che corre una serie di rischi psicofisici non banali.

Ma ogni moda, lo abbiamo già detto più di una volta, ha i suoi aspetti deteriori. Un esempio lampante è l’industria del running, che non solo promette prodotti sempre più sgargianti che garantiscono (come no) l’annullamento della fatica e un miglioramento di quindici secondi al chilometro.

Ma che favorisce pure la comparsa di un numero sempre crescente di influencer autoproclamatisi maestri di vita. Nonché allenatori, come se per poter insegnare uno sport non servisse un adeguato curriculum studiorum, ma bastasse un buon numero di influencer.

Fin qui, nulla di troppo diverso dagli altri sport, se non dal punto di vista quantitativo. Non ci pare infatti che altre discipline stiano muovendo un mercato di simili dimensioni.

Insomma: come ci si può abbigliare da professionisti del football e mimare le esultanze dei beniamini al calcetto del martedì, allo stesso modo ci si può dotare di abbigliamento ipertecnico e scarpe con lastre di carbonio generate da una stampante 3D, alimentare e integrare come i campioni keniani, anche se si chiude una maratona col doppio del loro tempo.

Ciascuno vive la propria passione come meglio desidera. E, ad avere una certa disponibilità di tempo e di denaro, assieme magari a un certo grado di infantilismo, non è infrequente farsi prendere la mano.

Il problema sta nel fatto che nel podismo esistono anche gli orologi GPS.

Il “problema” del GPS

Chiariamolo subito: il GPS applicato al podismo è uno strumento splendido.

Permette di allenarsi con maggior consapevolezza, quantificare i propri allenamenti e certificare i miglioramenti (oltre che i peggioramenti, ma non tocchiamo questo tasto: non oggi). E consente anche, ovunque ci si trovi, di allenarsi esattamente per il numero di chilometri desiderati.

Tuttavia, il GPS è anche quanto di più perverso possa esistere. Perché ci incasella: al di là di quanto ci reputiamo forti o scarsi, il GPS ci dice con precisione inconfutabile quanto valiamo in un determinato momento.

Ciò ingenera almeno due conseguenze ferali: il confronto con noi stessi e quello con gli altri podisti. Difficilissimo sottrarsi alla seconda tenzone, impossibile esentarsi dalla prima.

Le persone poco competitive, forse, riescono a tenersi alla larga dalla fatidica domanda, una volta che si parla di una determinata gara (o alla fine di una competizione podistica): “In quanto l’hai chiusa?”

Ma nessuno riesce a uscire indenne dai paragoni col sé del passato (e finché si migliora va tutto liscio) e col sé di domani, specie se ci si pone un obiettivo podistico.

Se questa pratica, di norma, ci sottrae ore di sonno per trasformarci in risolutori di equazioni complicatissime, diventa un vero e proprio supplizio dopo una certa età, quando i (fisiologici) peggioramenti cronometrici si fanno costanti e sempre più severi.

Secondo me, esattamente come c’è un limite massimo per completare una maratona, dovrebbe esserci una velocità al chilometro minima, sopra la quale i GPS andrebbero vietati. Meno male che sto scherzando.

Perché sto scherzando, vero?



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Claudio Bagnasco
Claudio Bagnasco è nato a Genova nel 1975. Suoi brani narrativi e saggistici sono apparsi su vari blog e riviste. Ha pubblicato alcuni libri, tra cui i romanzi "Silvia che seppellisce i morti" (Il Maestrale 2010) e "Gli inseguiti" (CartaCanta 2019), e la raccolta di racconti "In un corpo solo" (Quarup 2011). Ha curato il volume "Dato il posto in cui ci troviamo. Racconti dal carcere di Marassi" (Il Canneto 2013). Il 31 ottobre 2019 è uscito il suo saggio "Runningsofia. Filosofia della corsa" (il Melangolo, seconda edizione 2021). Con Giovanna Piazza ha ideato e cura il blog letterario "Squadernauti". Ha ideato Bed&Runfast, il punto d'incontro fra il mondo del podismo e quello delle strutture ricettive. Ha raccolto parte delle sue scritture nel sito personale claudiobagnasco.com. Dal 2013 abita a Tortolì, dove gestisce un B&B con la sua compagna, corregge testi, insegna le parole difficili a sua figlia e corre.