Sono troppo anziano per avere degli idoli, ma certamente ho le mie simpatie, anche tra i grandi podisti. Nel novero dei campioni della corsa, tra i miei preferiti c’è senza dubbio Stefano Mei, e se devo pensare ai motivi della mia predilezione, così al volo me ne vengono in mente due di natura sportiva e due di carattere per così dire umano. I primi due sono l’eleganza del suo gesto atletico e il fatto che, tutto sommato, Mei ha vinto poco (specie a livello internazionale) rispetto al suo enorme talento. I fattori extrasportivi sono l’origine ligure di entrambi (e, perché no, la reciproca simpatia che lega il suo Spezia e la mia Sampdoria), ma soprattutto la sua personalità, che – per il pochissimo che so di lui, e che ho ricavato da alcune interviste oltre che dal libro di cui vi parlerò tra un istante – mi sembra allo stesso tempo molto ferma e autonoma, e tuttavia improntata a una sana ironia e autoironia, oltre che a una scarsa attitudine al protocollo.
Il libro
Sembra confermare questa mia tesi il fatto che a dare alle stampe la biografia di Stefano Mei sia stato – nel 2019 – un piccolo editore spezzino, Giacché, con un libro dal titolo felicemente ambiguo, Due piedi sulle nuvole. Stefano Mei, una storia di atletica leggera, dove quelle nuvole fanno pensare sì a traguardi celesti ma anche a una certa dose di svagatezza e di simpatica indisciplina.
Il libro, corredato da belle fotografie che ritraggono il Mei di ieri e di oggi, è scritto e curato da Armando Napoletano, e contiene contributi di Giorgio Cimbrico, Gianni Brera, Sebastian Coe, Federico Leporati e Alberto Cova. Sì, proprio Cova, l’avversario numero uno di Stefano Mei, che con grande cavalleria ripercorre la mitica finale dei 10.000 ai Campionati europei di atletica, svoltisi a Stoccarda nel 1986: in quella leggendaria gara il podio è stato occupato, in ordine, da Mei, Cova e Antibo. Stefano Mei, con un’accelerazione portentosa a trecento metri dal traguardo, è riuscito a lasciarsi alle spalle gli altri due mostri sacri, e ha fatto spendere a Paolo Rosi le indimenticabili parole: “Mei, Cova, Antibo! È tutto uno sfolgorio di azzurro!” (gustatevi il video con il commento di Rosi qui).
I 10.000 di Stoccarda, ossia il punto più elevato della carriera di Stefano, è il fulcro attorno a cui ruota il volume, che la ripercorre attraverso svariate testimonianze; lo stesso Mei, nelle pagine conclusive, la rivisita in una rapida carrellata cronologica. Si scoprono così il talento prematuro, le tante vittorie in età giovanile (dai Cinque Mulini del 1979 allo strepitoso tris di record italiani del 1981: sui 3000, sui 5000 e soprattutto sui 1500, ancora imbattuto a distanza di quasi trent’anni). E poi, dalla fine degli anni Ottanta, i numerosi infortuni e la caparbietà nel ricominciare, sino all’ultima gara, il 9 giugno del 1996.
Impossibile non citare, poi, gli anni sotto la guida di Sandro Donati, e lo strenuo rifiuto da parte di Stefano non solo di ogni forma di doping, ma anche dell’autoemotrasfusione, tristemente in voga in quegli anni.
Preziosa la testimonianza di Federico Leporati, che si addentra anche in finezze tecniche (a p. 68 si legge che “Stefano dominava le gare ‘sul passo’, ma difettava molto nella capacità di esprimere potenza nella corsa quando la velocità cresceva”), e che ribadisce ciò che noi – podisti di oggi più o meno capaci – sappiamo già: i grandi atleti di allora si sottoponevano a carichi di lavoro impensabili ai giorni nostri.
Mentre mi arrovello sull’annosa questione, e caldeggio la lettura di Due piedi sulle nuvole (peraltro dedicato a Pietro Mennea), mi permetto di esprimere una speranza: quella che Stefano Mei, che si è proposto per il ruolo, possa diventare il prossimo presidente della Fidal. Avrebbe il curriculum, le competenze, la passione, il carisma e l’intelligenza adatti a riportare l’atletica italiana ad altissimi livelli.
Ti si vuole bene, Stefano Mei!
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