Non mi si prenda per apostata, oggi che vi parlerò di un libro sul mondo della bicicletta. Ma se c’è uno sport cugino della corsa, specie della corsa sulle lunghe distanze, questo è proprio il ciclismo: per la sua bellezza un po’ riottosa, che più si mostra quanto più chi lo pratica accetta di abbracciare la fatica; e anche per l’ambiguo fascino che la corsa in bici, così come quella a piedi, esercita su chi osserva – con una mistura di invidia e compassione – noi che, anziché fare qualcosa di concreto, prendiamo e andiamo.
Bikesofia
Nell’ottobre del 2019, scritto da Andrea Viola e pubblicato dal melangolo, è uscito Bikesofia: si tratta di una breve ma multiforme carrellata dei vari aspetti del ciclismo, da quelli più tecnici a quelli più poetici.
Viola non è solo un dichiarato amante del ciclismo, ma pure un forte amatore, come si legge nella quarta di copertina: e ci conforta sapere che il volumetto è stato scritto da chi possiede sia la competenza che la passione necessarie a trattare l’argomento.
Dopo un’introduzione dedicata a un excursus storico della bici, antenati e prototipi compresi, il primo capitolo riguarda la meccanica di questo meraviglioso veicolo. Una meccanica minuziosa e complessa, il cui risultato è però un’euritmia semplice e necessaria, alla pari delle migliori sinfonie. La lettura di un diluvio di termini tecnici, come nel Moby Dick di Melville, dà un paradossale risultato, ovvero la liberazione della più sfrenata fantasia: il canotto reggisella e il deragliatore posteriore, che sino a ieri chiamavo tubo e cambio, dopo la lettura di Bikesofia mi fanno pedalare in modo diverso, più leggero e sognante.
Il secondo capitolo è un omaggio a quattro campioni del ciclismo, di cui si tratteggiano i momenti più epici: Ottavio Bottecchia, Fausto Coppi, Marco Pantani e Vincenzo Nibali. Segue, quasi come contraltare, un capitoletto dedicato ai gregari e alle maglie nere. In nessun altro sport, in effetti, ci sono atleti così votati al sacrificio come i gregari, dediti alla vittoria del proprio capitano e quindi della squadra: è un atteggiamento antidivistico che, oltre a rimarcare la democraticità del ciclismo, dovrebbe servire da monito ai troppi sportivi (non solo professionisti) affetti da narcisismo acuto. La maglia nera invece, istituita nel 1946 e abolita nel 1952, si affibbiava all’ultimo classificato al Giro d’Italia, ed era un riconoscimento ambito, poiché comprendeva anche un premio in denaro: in questa curiosa disputa, inarrivabile antieroe fu Luigi Malabrocca.
Andrea Viola si occupa, nel capitolo successivo, di alcune categorie di ciclista, dall’amatore al biker, dal ciclista urbano al cicloturista, soffermandosi su peculiarità e vezzi di ciascuna. Qui l’estensore dell’articolo ha rinvenuto diversi collegamenti impliciti col podismo, come la necessità degli amatori di confrontarsi col limite (e di farsi inebriare da quelle impareggiabili droghe autoprodotte che prendono il nome di endorfine), o il binomio radicale tra amanti dell’asfalto e dell’allenamento in natura (“Le due grandi confessioni della bici”, le chiama Viola alle pp. 65-6).
Non manca un lodevole capitolo in cui vengono mostrati personaggi più o meno noti che, grazie alla bicicletta, hanno saputo affrontare con coraggio la disabilità fisica. Un plauso a Viola per aver messo sullo stesso piano atleti pressoché sconosciuti col grande Alex Zanardi: non è la notorietà che certifica la misura dell’umano coraggio.
Il libro si chiude con una serie di gustosi riferimenti al mondo dell’arte, che si è interessato alla magia della bicicletta fin dalla comparsa del “primo veicolo a propulsione umana” (p. 13).
Si chiude Bikesofia con una duplice sensazione: quella di aver letto un centinaio di ispirate pagine su uno degli strumenti più belli e utili inventati nella contemporaneità; e quella di dover adoperare di più un mezzo così pratico, ecologico, romantico, di una complessità semplicissima (come abbiamo cercato di dire qui qualche tempo fa).
Andiamo a pedalare?
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