Ci sono immagini emblematiche (oggi si dice iconiche, con buona pace dei dizionari) per gli amanti dello sport: l’urlo di Tardelli nella finale Mundial del 1982, ad esempio, oppure – specie per noi tapascioni – il “Cova, Cova, Cova, Covaaa!” del telecronista Rai Paolo Rosi.
Il grande campione del mezzofondo, capace di vincere nell’arco di ventiquattro mesi la medaglia d’oro agli Europei di Atene (settembre 1982), ai Mondiali di Helsinki (agosto 1983) e alle Olimpiadi di Los Angeles (agosto 1984), si racconta in Con la testa e con il cuore, autobiografia scritta a quattro mani con Dario Ricci e data alle stampe nel marzo del 2020 da Sperling & Kupfer.
Il libro
Nel volume viene narrata la vicenda sportiva di un formidabile atleta, incline a votarsi con disciplina ferrea a un solo obiettivo: quello di correre il più velocemente possibile in tutte le gare alle quali abbia partecipato.
Qui, più che dar conto del palmares di Alberto Cova – facilmente rinvenibile in Rete – ci soffermeremo su due aspetti che riteniamo centrali dell’opera. Il primo è una curiosità filologica, rara da ritrovare in libri di argomento simile: sono riportati stralci di articoli su Cova, scritti dalle più autorevoli penne del giornalismo sportivo di quegli anni; ciò (oltre a essere, per un appassionato della lingua italiana come chi scrive, un chiaro segnale di come la precisione semantica e l’eleganza sintattica siano andate sempre più deteriorandosi, anche in ambito giornalistico) è emblematico della personalità di Alberto Cova, e ci permette di introdurre la seconda peculiarità di questa biografia.
Supponendo infatti, quasi certi di non sbagliare, che gli articoli citati siano stati conservati dallo stesso Cova, ci troviamo davanti a una testimonianza dell’indole metodica, scientifica del campione del mezzofondo.
In diversi passaggi del testo, inoltre, Cova si sofferma sull’importanza della dedizione costante e profondissima al suo mestiere, del sacrificio, della rinuncia, oltre che sull’incessante fame di vittorie. Spesso, non neghiamolo, a Cova si è attribuito la nomea di antipatico: a leggere Con la testa e con il cuore viene invece il dubbio che tanta sicurezza sciorinata nelle interviste non fosse superbia ma consapevolezza del proprio valore, una consapevolezza che altro non era se non l’aspetto ultimo, esteriore, di un controllo totale, ai limiti dell’ossessivo, di ogni passaggio che lo avrebbe condotto a tante impeccabili prestazioni.
Non a caso, nel libro viene citato come esempio virtuoso (alle pagine 91 e 92) il rituale che il grande tennista Rafael Nadal compie prima di ogni servizio; non a caso, per chi è abituato a un perfetto funzionamento psicofisico e a un totale dominio sulla propria condizione di forma, i primi segni di inceppamento del meccanismo (che Cova fa simbolicamente partire dalla sconfitta in volata con Stefano Mei agli Europei di Stoccarda del 1986) portano non piccole difficoltà nella ricollocazione di sé; anche se Cova, oggi, è un felice papà e nonno nonché un runner che, proprio come noi, partecipa senza eccessive velleità agonistiche alle gare podistiche, maratone incluse.
Leggendo Con la testa e con il cuore mi è venuto in mente John Coltrane: nella sua biografia è scritto che, quando il genio del sax si esercitava, toccava alla moglie aprire la porta di casa a chi arrivava a fargli visita. “John sta suonando”, era la risposta. E chiunque avesse scampanellato, anche il più caro degli amici, sapeva che avrebbe atteso decine di minuti, magari ore.
Allora, la concentrazione incrollabile di Cova dovrebbe ricordarci che non si può essere tutto, nella vita, e che – anzi – per godere appieno del suo fascino e del suo mistero si dovrebbe scegliere uno e un solo ambito e applicarvisi senza distrazioni. Forse, proprio le infinite possibilità di sviamento sono il sintomo più evidente della contemporaneità. Ecco perché ci sono sempre meno grandi artisti e grandi atleti, ed ecco perché – altra vexata quaestio – oggi gli amatori vanno sempre più piano.
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