Il doping e l’agonismo sociale di massa

Ogni volta che si parla di doping ci si introduce in uno di quegli argomenti facili.

Nel senso di facili all’apparenza, perché di solito liquidati con una o più sentenze automatiche – da bar, con tutto il rispetto per questi amati esercizi commerciali – improntate al più bieco giustizialismo.

Sentenze riassumibili così: “Squalificateli a vita!” Che sarebbe l’equivalente, faccio notare, del rinchiudere per sempre in cella chi abbia commesso qualsivoglia reato.

Cominciamo col dire che, se l’obiettivo di una pena è – come dovrebbe essere – la riabilitazione, non mi sembra scandaloso ritrovare in gara, dopo opportuna squalifica, un atleta che si sia dopato.

Mi spingerei anche oltre, dal momento che una serie di illuminanti letture non mi rendono nemmeno più così sicuro del fatto che il doping – nello sport professionistico – vada vietato. Ma non divaghiamo.

lo sport imbroglione

Lo sport imbroglione

Non divaghiamo e parliamo de Lo sport imbroglione. Storia del doping da Dorando Petri ad Alex Schwazer, scritto da Sergio Giuntini (Ediciclo, novembre 2022, con un prefazione di Sergio Pivato).

Il volume è importante per almeno due motivi. Intanto perché si tratta di un excursus storico che in trecento pagine ci dà una vertiginosa prospettiva su quanto radicato sia stato e sia il doping praticamente in tutti gli sport di alto livello.

E non solo: non è infrequente leggere o sentire, ad esempio, di podisti o ciclisti amatori risultati positivi a una qualche sostanza vietata. Ne riparleremo.

Il Novecento, si sa, è stato (anche) il secolo del doping di Stato. In questo senso si spende sempre l’esempio della Repubblica Democratica Tedesca, che offusca così la diffusissima pratica del doping in Unione Sovietica o negli Stati Uniti.

Ma il quinto ed emblematico capitolo riguarda il nostro Paese, e si intitola in modo eloquente “Verso il doping italiano di Stato”: negli scorsi decenni c’è davvero l’imbarazzo della scelta, tra gli innumerevoli ciclisti risultati positivi, la figura di Francesco Conconi, le autoemotrasfusioni nel podismo, le sostanze dopanti nel calcio eccetera eccetera.

Un capitolo a sé merita Alessandro “Sandro” Donati, figura emblematica della lotta al doping in Italia, e allenatore di Alex Schwazer. Tutti sappiamo che il grande marciatore ha subìto una prima sacrosanta condanna per doping e una seconda a dir poco sospetta (e il sospetto, giusto per essere chiari, è quello di una vendetta proprio contro il troppo solerte Donati).

All’autobiografia di Schwazer abbiamo dedicato una recensione qui.

Ma dicevamo che Lo sport imbroglione è importante per due motivi. Il secondo?

L’agonismo sociale di massa

Il secondo motivo che fa de Lo sport imbroglione un volume importante è che, a lettura ultimata, si ha una sensazione di straniamento.

La sensazione è che il doping sia radicato a tal punto nello sport ad alti livelli, da non poter far altro che levare le mani e dichiararsi sconfitti.

O affermare, come ha fatto il bravo scrittore (e podista amatore) Mauro Covacich, che il doping andrebbe legalizzato. Se noi pretendiamo di godere delle gesta di atleti sempre più forti, veloci, resistenti, efficaci e durevoli nel gesto atletico – questa la sintesi del suo intervento – saremmo ipocriti se ci scandalizzassimo all’idea che un tipo simile di atleta esiste grazie anche all’aiuto farmacologico.

Quindi? Quindi, forse, bisogna allargare lo sguardo, e minare alle fondamenta proprio ciò di cui parla Covacich. Ovvero l’idea che lo sport debba essere uno dei tanti agoni che certifichi – e distingua dagli altri – i migliori, i più abili, i più meritevoli (e astuti). Ecco il motivo per cui il doping si è infiltrato anche tra gli amatori: primeggiare, a qualunque livello, dà sensazioni così inebrianti che – provate una volta – le si vuole rigustare ancora e ancora. E, in alcuni casi, a ogni costo.

“[…] il doping è una delle degenerazioni della cultura ‘recordista’ e dell’agonismo sociale di massa contemporaneo, ne costituisce uno dei paradigmi”, leggiamo a p. 27.

Ecco: si dovrebbe allora cambiare cultura, modificare il nostro atteggiamento esistenziale. Sfida senza dubbio improba, ma a noi maratoneti le sfide improbe non spaventano.



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Claudio Bagnasco
Claudio Bagnasco è nato a Genova nel 1975. Suoi brani narrativi e saggistici sono apparsi su vari blog e riviste. Ha pubblicato alcuni libri, tra cui i romanzi "Silvia che seppellisce i morti" (Il Maestrale 2010) e "Gli inseguiti" (CartaCanta 2019), e la raccolta di racconti "In un corpo solo" (Quarup 2011). Ha curato il volume "Dato il posto in cui ci troviamo. Racconti dal carcere di Marassi" (Il Canneto 2013). Il 31 ottobre 2019 è uscito il suo saggio "Runningsofia. Filosofia della corsa" (il Melangolo, seconda edizione 2021). Con Giovanna Piazza ha ideato e cura il blog letterario "Squadernauti". Ha ideato Bed&Runfast, il punto d'incontro fra il mondo del podismo e quello delle strutture ricettive. Ha raccolto parte delle sue scritture nel sito personale claudiobagnasco.com. Dal 2013 abita a Tortolì, dove gestisce un B&B con la sua compagna, corregge testi, insegna le parole difficili a sua figlia e corre.