Libri

Gli eroi son tutti giovani e belli

Cari lettori, ultimamente vi sto abituando a frequenti incursioni in altri sport, contravvenendo alla mia fama di podista monomaniaco.

Anche stavolta vi intratterrò richiamando la vostra attenzione sulla mia altra (e ben più antica e radicata) mania, già confessata qualche settimana fa, quando ho recensito il volume dedicato a uno dei suoi più sublimi artefici. Stiamo parlando della Sampdoria.

Il 19 aprile del 1991, con una giornata di anticipo, la Samp ha vinto lo scudetto.

Da giovane tifoso quale ero, ho visto almeno la metà delle partite casalinghe dalla gradinata Sud.

È per me dunque molto difficile capire quanto quell’evento (e il percorso che ne ha permesso il compimento) sia stato oggettivamente eccezionale, e quanto sia io vittima degli scherzi della memoria e dell’affetto.

La bella stagione

A complicare le cose interviene una pubblicazione che cade pressoché in coincidenza con il trentennale del tricolore della Samp. È il volume La bella stagione, scritto dai giocatori della Sampdoria (e risistemato da Pierdomenico Baccalario e Massimo Prosperi, che ha curato le interviste).

I proventi del libro, uscito per Mondadori il 18 maggio scorso, sosterranno l’associazione Gaslini Onlus.

La bella stagione è la cronistoria di un campionato forse irripetibile, e torneremo su quel forse. Narrato in prima persona (la tecnica è quella del narratore onnisciente, ma a parlare sembra sia un soggetto collettivo rappresentato appunto da tutti i giocatori del Doria), il libro è un viaggio dietro le quinte di una squadra che fino ad allora sembrava bellissima, sbarazzina ma sempre a un passo dalla compiutezza. E le tre vittorie in Coppa Italia (a cui se ne sarebbe aggiunta una quarta) erano ritenute da molti il massimo riconoscimento possibile per un gruppo destinato a rimanere a un palmo dalla vetta.

La bella stagione, scritto con un tono cordiale, sottolinea proprio il divertimento e la complicità che governava lo spogliatoio blucerchiato. Dove non sono mancati i dissapori e i litigi (celebre quello tra Vialli e Mancini, che non si sono parlati per settimane).

E così scopriamo l’inclinazione comica di Lombardo e Bonetti, gli atteggiamenti stravaganti di Cerezo, il carattere non sempre facile del Mancio e l’indole diplomatica di Dossena. Gli scherzi, le difficoltà, le cene per riconciliarsi dopo un’incomprensione o raddrizzarsi dopo una sconfitta.

E le due figure carismatiche, così diverse tra loro. Vujadin Boskov, l’allenatore slavo. O meglio, Il labbro di Novi Sad, che riusciva a coniare un proverbio quasi ogni volta che apriva bocca. Insieme a lui, naturalmente, Paolo Mantovani, il presidente, persona lungimirante, acutissima e con una maestosa malinconia nella figura, persino nella voce. Il perfetto contrappeso a quel pieno di gioventù che la squadra di quegli anni ha mostrato di essere.

Quel forse

Vi sono debitore di qualche parola su quel forse.

Il terreno è infido, perché in questi casi scivolare sulla buccia della retorica è un attimo.

Era un altro calcio. C’erano altri valori. Anche sugli spalti era diverso. Una serie di frasi simili affiorano alla mente dell’estensore di questo articolo, che si sforza di rigettarle perché le ritiene inautentiche. Il calcio è sempre stato uno sport fin troppo ricco, pieno di giovani spesso fatalmente attratti dal denaro e dal successo, e qualche volta al centro di penosi scandali (il doping, il calcioscommesse). Siamo d’accordo.

Eppure non è facile esimersi dal dire che lo scudetto della Sampdoria, una squadra così indisciplinata e allo stesso tempo così oliata, trent’anni dopo sembra davvero già una favola della cui veridicità iniziamo a dubitare.

Colpa della giovinezza, e dell’indulgenza del ricordo?

Può darsi. Ma a leggere La bella stagione, anche non essendo tifosi come chi scrive, si ha l’impressione che il titolo del libro funzioni alla perfezione: è stata una bella stagione calcistica, la giovinezza è una bella stagione della vita. E non solo: anche il calcio, ed eccoci di nuovo sul ciglio del burrone della retorica, dava l’impressione di essere ancora uno sport relativamente giovane.

C’erano già i miliardi e stavano nascendo le pay TV, è verissimo. Ma alla domenica, non dimentichiamolo, le partite si seguivano ancora con la radiolina appiccicata all’orecchio.

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