L’altro giorno (sapete com’è: ultimamente passo molto tempo in casa…) stavo riordinando la mia libreria. Arrivato alla sezione occupata dai volumi sullo sport, mi è capitato in mano Correre da zero a cento, scritto da Giorgio Calcaterra in collaborazione con Daniele Ottavi, e mi sono ricordato di essere in debito col grande Re Giorgio.
Come mai? L’antefatto in qualche modo l’ho già espresso qui: avrei dovuto presentare il libro al village della seconda edizione della Genova City Marathon, che si sarebbe dovuta svolgere domenica 1 dicembre ma che è stata annullata per maltempo. La copertina della mia copia di Correre da zero a cento presenta ancora, nella parte superiore del fronte, un’onda: è il lascito di quanto successo ad Alghero, quando Giorgio – dopo la Alghero Half Marathon – ha frugato nella sua borsa, mi ha regalato il libro (che da buon relatore avrei dovuto leggere per arrivare dignitosamente preparato alla presentazione), e io ho pensato bene di infilarlo in modo maldestro nella mia, di borsa, senza considerare i capi tecnici sudati al suo interno.
Avevo già letto, scritto sempre da Calcaterra a quattro mani con Ottavi, Correre è la mia vita, un appassionato resoconto della carriera podistica di Giorgio, corredato da alcune foto belle e intime. Qui invece, in Correre da zero a cento, il protagonista è in qualche modo il lettore, preso per mano in un percorso (pieno di saggi consigli) che lo dovrebbe condurre a correre la sua prima dieci chilometri, e su su fino allo spauracchio dell’ultramaratona. Anche in questo caso c’è un interessante inserto fotografico, in cui compaiono alcune preziose pagine del diario podistico di Calcaterra, rigorosamente compilate a mano (e piuttosto impressionanti per intensità e frequenza di allenamenti e gare).
Leggere Giorgio è piacevole esattamente come ascoltarlo, di persona o meno che sia. In che senso?
Nel senso che Calcaterra è, anzitutto, un campione: stiamo parlando di un signore che ha vinto per dodici volte di fila la Cento chilometri del Passatore e si è diplomato tre volte campione del mondo nella medesima distanza. Eppure la sua timidezza, la sua disponibilità e la sua autoironia – che, peraltro, danno l’impressione di appartenere a una persona semplice ma tutt’altro che sprovveduta, a un uomo capace semmai di ritenersi fortunato e felice, e di farsi bastare la propria fortuna e la propria felicità – dicevamo che la sua timidezza, la sua disponibilità e la sua autoironia, per farla breve, commuovono. Perché non somigliano mai a un atteggiamento. E così noi tapascioni ci ritroviamo a eleggere simbolicamente Re Giorgio a nostro portavoce (o meglio, confessiamocelo: regrediamo e ne facciamo un idolo), perché ci sembra straordinario che un atleta di caratura internazionale possa non dimenticarsi di essere un comune mortale. Uno impacciato di fronte alla telecamera, uno in grado di fallire una gara per non aver saputo resistere a qualche tentazione culinaria, o addirittura di presentarsi alla partenza… a gara già iniziata!
Abbiamo scelto, amici podisti, lo sport più bello. Non solo perché correre è il più naturale e appagante dei gesti, ma anche perché l’esiguo giro di denaro attorno al podismo (se escludiamo pochissime e sponsorizzatissime star) fa sì che i migliori atleti siano persone dedite alla fatica e non alla visibilità, al sacrificio del proprio tempo e non al culto della propria persona.
E anche in questo, per genuina modestia, Re Giorgio svetta. Non lo dimenticherò mai, ancora reduce da un’influenza che non gli ha permesso di correre al meglio, lì seduto da solo sotto il palco della premiazione della Alghero Half Marathon, ad applaudire convintamente tutti quelli che sono andati a podio nelle varie categorie. E quando io l’ho avvicinato e mi sono presentato, ha preso a parlarmi della gara con l’entusiasmo del ragazzino al primo allenamento. A bassa voce, col suo solito sorriso sulle labbra, chinando il capo ogni tre parole per via della vergogna. Lui, il grande Re Giorgio.
Viva correre, viva Giorgio Calcaterra!
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