Tutti coloro che negli ultimi anni hanno scritto in lingua italiana pagine non banali sul podismo, sospetto che riconoscano come cugino maggiore Perché corriamo?, libro di Roberto Weber uscito nel 2007 per l’elegante collana einaudiana delle Vele e ormai di non facile reperibilità.
Perché corriamo? è un florilegio di felici intuizioni, mediante le quali l’autore restituisce la corsa alla sua collocazione primordiale; ma la corsa come compimento di un gesto insito nell’umana natura significa anche, oggi, evadere da una quotidianità governata dagli aspetti funzionali (produrre, relazionarsi…) o accessori (accumulare, ostentare…). “La corsa è sottrazione del meraviglioso superfluo che anni di benessere ci hanno regalato. È regressione a una condizione primaria ed è al tempo stesso ascesi, perché condanna ciò che è «bello» cancellando ogni traccia mondana”, p. 34.
Tuttavia, queste mie poche righe non vogliono essere una recensione al volumetto di Weber, che pure vi consiglio vivamente di procurarvi e leggere con estrema attenzione (lo si può ancora trovare nei negozi di libri usati, reali e virtuali).
Perché corriamo? conta poco più di cento pagine ed è stato scritto tredici anni fa, e su questi due aspetti vorrei imbastire un breve ragionamento. Roberto Weber, che non indulge mai alla ripetizione o al compiacimento, grazie a una scrittura sicura e a una sintassi elegante espunge davvero il “meraviglioso superfluo” dalla sua opera, necessaria in ogni parola. Sembra, questa nettezza, una sorta di implicito omaggio alla corsa, attività che – se praticata con impegno e continuità – impone una disciplina quasi marziale, una costante concentrazione sull’essenziale.
Stupisce, al confronto con una simile ricerca della parola assoluta, la verbosità di tanta recente produzione letteraria di argomento podistico, gravata da un’autoreferenzialità ingombrante e dall’ingenua pretesa di attribuire alla propria personale esperienza un valore universale. E così passiamo alla seconda parte del ragionamento, che prende spunto da un dato temporale: l’anno di scrittura di Perché corriamo?, il 2007.
Rischiando di apparire retorici, ci sentiamo di affermare che in questi tredici anni – in ambito podistico – è cambiato moltissimo. L’autoreferenzialità cui abbiamo appena accennato, complice il dilagare dei social, è assurta a protagonista del nostro amato sport. Il “meraviglioso superfluo” a poco a poco ha scalzato posizioni, perdendo il suo carattere ancillare e diventando per molti corridori il motivo principale della pratica podistica: che il desiderio più irrefrenabile sia quello di partecipare a una manifestazione-evento per il gusto di poter dire c’ero anch’io, quello di abbigliarsi e integrarsi con i prodotti dei marchi più à la page oppure quello di rimpinzare il web di proprie foto scattate prima, durante o dopo un allenamento, una cosa è certa: per una larga percentuale di podisti l’azione di correre ha contemporaneamente perduto centralità e autonomia.
Perché? Chi lo sa. Forse col moltiplicarsi delle possibilità di distrazione – che crescono al crescere del benessere medio, che si affinano col perfezionarsi della tecnologia – si è sempre più tentati di rifuggire la dedizione, la fatica, la programmazione di un obiettivo (che non si ha alcuna certezza di raggiungere, a prescindere dagli sforzi profusi). Forse, ancora, la spettacolarizzazione della corsa l’ha resa un mero bene di consumo, che si acquista e rumina passivamente, senza istituire con essa quel rapporto intimo che potrebbe dare ritmo e misura all’esistenza.
Allora ecco che, tredici anni dopo la sua uscita, Perché corriamo? di Roberto Weber può essere di estrema utilità per due categorie di lettori: se già dal titolo esso sembra rivolgersi sarcasticamente ai corridori-bersaglio del marketing podistico, nel suo prezioso contenuto vale da amuleto per tutti i podisti che vogliano tenere a mente, o apprendere, il senso ultimo e più autentico del correre, ovvero “un processo – in larga misura inconsapevole – di ascesi, di liberazione dalla quotidianità, dai suoi limiti, dalle sue angustie e soprattutto dalle sue coordinate spaziali e temporali”, p. 6.
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