Se mi concentro bene, amici lettori, scopro di non aver trascorso i tre giorni da giovedì 8 a sabato 10 ottobre solo e soltanto su automobili, corriere, treni e aerei: in mezzo è capitato anche qualcosa di assai bello.
Per gli amanti del brivido o degli accadimenti di contorno: la mattina di giovedì 8 (dopo un magnifico allenamento all’alba) sono stato accompagnato in automobile alla stazione dei pullman di Tortolì, dove alle 9.45 sono partito per Cagliari; qui ho preso un aereo per Bologna; una famiglia di cari amici mi ha invitato a cena in un meraviglioso ristorante sui colli, dove ho mangiato dei superbi tortelloni verdi con crema di tartufo nero e altre squisitezze; la mattina di venerdì 9 ho preso un treno per Ancona e poi uno per Macerata, dove – arrivato con oltre un’ora di ritardo – mi sono soffermato sino all’alba di sabato, quando alle 6.25 un treno regionale mi ha portato a Fabriano, dove ho preso un altro treno per Roma Termini; qui sono balzato su una corriera per l’aeroporto di Fiumicino, dove ho preso un aereo per Cagliari; il fratello della mia compagna mi ha infine condotto a casa in auto. Sono riuscito a riconoscere mia figlia.
A parte ciò, come scrivevo qui, sono stato ospite all’Overtime Festival assieme a quattro formidabili amici: Gastone Breccia, Saverio Fattori, Cesare Picco e Marco Patucchi. Sul palco abbiamo detto quel che abbiamo detto, per via dei tempi un po’ serrati e della compresenza forse un po’ forzata con alcuni insegnanti di nordic walking. Alcuni di noi, non io, sono comunque riusciti a dire cose interessanti. Ci è succeduto sul palco Alberto Cova, per parlare della sua autobiografia, da me recensita in questo articolo: è stata una conversazione gradevole, ricca di spunti e aneddoti (lo dico? Lo dico: Cova dal vivo è apparso assai meno sussiegoso di quanto non mi aspettassi), e una sua frase gnomica – cioè proverbiale, non bassa di statura – mi ha particolarmente colpito: “Sacrifici? Io non ho mai fatto sacrifici, ma ho fatto tanta fatica”.
Devo però dire che il ricordo più piacevole è quello delle ore successive, quando con gli altri quattro podisti-scrittori ci siamo ritrovati non solo a prendere freddo ma anche a parlare di un po’ di tutto: di atletica, va da sé, ma anche di filosofi bizantini, della battaglia di Anzio (anzi, dello sbarco di Anzio, se no poi Gastone – storico di vaglia – mi sgrida), di giornalismo, di editoria minore, di Antonio Cassano e di una quantità di altre cose.
Ho scoperto personalità diversissime tra loro: memorabile la lunga chiacchierata tra il facondo Saverio e il flemmatico e accogliente Cesare, o il racconto di Marco, punteggiato di colpi di scena, sulla genesi di un suo libro.
Sull’aereo del ritorno ho riflettuto, ecco, su tutti i discorsi fatti (e da me più che altro ascoltati), e anche su quella frase di Cova sulla fatica, e mi sono ancor più persuaso di qualcosa che già penso e su cui ho già scritto: che chi corre – chi lo fa con continuità e impegno, a prescindere dai risultati cronometrici che ottiene – cerca una confidenza (forse impossibile) con l’infinito, con l’invisibile, con la parte immersa, misteriosa, inconoscibile del mondo; che è poi la parte immersa, misteriosa, inconoscibile di sé.
Con questo, naturalmente, non voglio dire che quella dei podisti sia la sola categoria umana che si interroga sui limiti dell’uomo e dell’universo. Però lo fa sperimentando su di sé, sul proprio corpo, senza mediazioni intellettuali, ed è forse questo che mi ha fatto avvicinare alla corsa, mi continua a far stare bene in compagnia di chi corre, e non smette di muovermi il dubbio sulla liceità della mia appartenenza alla categoria.
Comunque, finché nessuno mi dice niente, io persevero e correre e a scrivere di podismo.
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