Non so se si possa dire, cari lettori, ma lo dico ugualmente: in questa domenica di agosto mi è presa la malinconia delle gare.
Il motivo è semplice: sia per problemi globali (la pandemia) che personali (infortuni a ripetizione), in questi ultimi anni ho gareggiato pochissimo. Non che io sia dipendente dal gesto di appuntarmi il pettorale al petto, anzi. Ma di solito correvo due maratone all’anno, una in autunno inoltrato e l’altra in primavera, e attorno a questi due appuntamenti gravitava la mia preparazione.
E così oggi, preso dalla già citata malinconia agostana, sto ripensando alle gare. Io che ne osteggio gli aspetti deteriori, e che vedo bene come – in una percentuale sempre crescente – le gare siano momenti attesi più dall’industria del podismo che da chi gode del puro gesto di correre.
Ma le gare organizzate bene (e per bene intendo con un occhio alla riuscita della manifestazione, certo, ma con l’altro alla sua vividezza e cordialità) hanno in sé tanti buoni motivi per essere scelte, preparate, vissute.
Per iniziare, le gare è bello sceglierle. Calendario alla mano (e per noi amatori non si tratta mai di una decisione semplice), si delibera su quale maratona (o competizione di altra distanza) iscriversi, con una serie di rituali collegati. Uno tra tutti, una visita al sito ufficiale, o a forum di podismo vari, per scoprire com’è il percorso e soprattutto la temutissima altimetria.
Scegliere la maratona autunnale, nel mio caso, significa almeno due cose: optare per una gara che si tenga non prima della fine di novembre (fateli voi i lunghissimi a luglio, in Sardegna), e che mi permetta di non rimanere troppi giorni lontano da casa. E qui posso solo sperare che le compagnie aeree si comportino a modino.
Poi c’è la preparazione, con un allenatore che ci segua di persona o (come succede a me) a distanza. Il gusto, e il terrore, di vedere le tabelle, di dire: “Quell’allenamento? Non ce la farò mai”, per poi scoprire che – giorno dopo giorno – si entra sempre più in forma, e l’allenamento che sembrava impossibile lo si regge egregiamente.
E poi l’avvicinarsi del giorno della gara, il periodo di defaticamento, la sensazione di non essere abbastanza pronti, il viaggio verso la destinazione. E il cosiddetto village, in cui si incontrano altri podisti e se ne conoscono di nuovi. Village nel quale la logorrea (chiaro segnale dell’ansia pre-gara) la fa da padrona.
Sino ad arrivare alla mattina della gara, la tensione, il pettorale che si appunta sempre troppo storto, l’uscita di casa invidiando ferocemente il partner che si alzerà quando noi saremo a metà gara, ma subito dopo il conforto di vedere tanti altri si stanno dirigendo verso il medesimo punto, le griglie, la partenza.
Lo so che ogni volta, a noi maratoneti, sembra impossibile, eppure la stessa andatura che al sesto chilometro ci fa amabilmente discorrere di filosofia presocratica con uno sconosciuto, al trentottesimo ci fa maledire il fatto di esserci iscritti.
In fondo sta racchiusa qui tutta la bellezza orrorifica della maratona, e non è poca cosa. La maratona è un viaggio, i cui bagagli più preziosi sono (oltre, va da sé, a una buona condizione psicofisica) la pazienza, la tenacia, la capacità di rimanere concentrati e di gestire la fatica.
Per cui non smetterò di ripetere che preparare e correre una maratona è una delle maniere più oneste (e spietate) di conoscersi in modo intimo.
Gare di diverso chilometraggio hanno le loro nobilissime virtù, non si discute, ma semplicemente le si ha frequentate meno. Anche perché, immagino si capisca, il mio cuore batte per la gara regina.
Le gare terminano l’attimo in cui, stoppando il nostro orologio GPS, eliminiamo con gesto vagamente suicida il noi che sino al metro prima ha gareggiato, e torniamo nel mondo.
Da lì in poi non è vero che inizia la gioia: inizia la malinconia. E se già con la medaglia al collo stiamo pensando a quale potrebbe essere la prossima gara che correremo, è perché l’idea di ricominciare daccapo serve come argine all’angoscia sottile per qualcosa di bellissimo, così duro e lungo da preparare, che in un soffio è già alle nostre spalle.
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