Ebbene, cari lettori, domenica si è corsa la maratona del Lamone. Senza di me.
E il fatto è che io, da quando ho iniziato la preparazione, forse lo sapevo già, che non l’avrei corsa. E la preparazione stessa è stata, a voler essere severo con me stesso, una protratta bugia che mi sono raccontato, fino a essere arrivato al punto in cui non avrei potuto prorogare oltre la menzogna. Sapete, no?, come quelli che dicono di prendere 30 e lode a ogni esame universitario, ma in verità esami non ne hanno mai dato mezzo. Poi però arriva il giorno della presunta discussione della tesi, e lì la frottola deve necessariamente mostrarsi come tale, e lasciare il posto alla realtà.
A voler essere un po’ più indulgenti è stata, la mia preparazione per la non maratone del Lamone, un lungo tentativo di provarci comunque, non senza momenti di sincero entusiasmo.
Adesso vi spiego tutto meglio.
Non so mai, nella vecchia dicotomia testa-gambe, chi delle due – quando il soggetto interessato è un podista – guidi chi, e chi si lasci guidare. Forse testa e gambe si condizionano a vicenda ma, come nel caso dell’uovo e della gallina, è impossibile stabilire chi stia all’origine di tutto.
Quello che so è che la mia non maratona del Lamone ha in sé quel non anche per una condizione psicologica mai ottimale. È come se la preparazione di una gara regina, impegnativa com’è anche dal punto di vista mentale, non prevedesse ulteriori pensieri che ci affollano la testa, dal momento che lei – la preparazione – ce la vampirizza già abbastanza.
E invece la mia testa, in queste settimane, mica ha collaborato, distratta com’è stata da troppe cose più o meno urgenti.
Dunque non sono stato capace della dovuta concentrazione durante gli allenamenti più impegnativi. Né sono stato capace di accettare, sopportare e farmi amica la fatica, la rinuncia.
E poi c’è stato il fisico, che proprio non ha funzionato.
Da mesi ho rallentato tutti i ritmi – lento, medio eccetera – di circa cinque secondi al chilometro rispetto al mio solito. E poi recuperavo con più difficoltà, spingevo meno nelle ripetute, accusavo ogni salita oltre il dovuto. Eccetera.
È come, più in generale, se l’avvicinamento alla data del 2 aprile non l’avessi diluito nella mia quotidianità, ma l’avessi sempre concepito come un corpo estraneo.
E, si badi, non dico corpo per caso. Ma perché per me l’accoglimento di tutti gli ostacoli da affrontare (e, possibilmente, superare) prima di una maratona, è proprio un fatto fisico: occorre che ogni allenamento, ma anche l’atteggiamento nei confronti dell’alimentazione, del riposo, escano dalla pesantezza del calcolo ed entrino nel novero delle cose naturali, come il dissetarsi quando si ha sete o il grattarsi dietro la nuca quando abbiamo prurito.
Se ciò non avviene, almeno nel mio caso, qualcosa non va. E nelle settimane prima di questa non maratona del Lamone, di certo qualcosa non è andato.
L’aver bucato il mio appuntamento con la maratona del Lamone è, certamente, un fallimento sportivo.
Ma un fallimento sportivo, oltre a non essere un fallimento umano, esistenziale, porta con sé anche aspetti positivi da non sottovalutare.
Per esigenze di spazio riporterò qui solo il principale. La non maratona del Lamone mi ha ricordato che correre, per me, non è un approdo consolatorio.
Anzi, come ogni esperienza frontale, che mi mette al cospetto del mio nucleo più intimo, anche la corsa mi destabilizza, non è qui per offrirmi certezze ma anzi per sottrarmele.
In queste settimane la corsa mi ha mostrato dubbi in grande quantità, e mi ha ricordato come sia facile – ai bivi della vita – prendere la strada sbagliata.
Cosa fare, ad esempio, nei periodi di scarsa forma? Allenarsi di più o tirare il fiato?
E chi lo sa? Corro non per rispondere a queste e a moltissime altre domande, ma per continuare a pormele.
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