L’uomo è un animale capace di abituarsi e assuefarsi a tutto (ah: lo è anche la donna).
Non solo ci si abitua a tutto ma, con quell’attitudine alla malinconia che più o meno vistosamente possediamo tutti, tendiamo ad affezionarci pressoché a tutto ciò che frequentiamo con una certa periodicità.
Il podista stanziale (cioè quello che, come me, corre per suppergiù trecentocinquanta giorni all’anno nello stesso luogo) tende addirittura ad affezionarsi ai propri percorsi.
Vi ho parlato lo scorso lunedì della mia parentesi genovese, e dei miei allenamenti in pista (tranne un’uscita in strada all’alba del 26 dicembre, in una Genova deserta come la si vede di rado).
Dal 7 gennaio sono di nuovo in Sardegna. E, come ogni volta al rientro da un soggiorno altrove, mi viene da riflettere sui miei percorsi podistici.
Correre in pista a Genova vuol dire, per me, impiegare circa un’ora tra fare la borsa, raggiungere la fermata dell’autobus, prenderlo, scendere, entrare nello spogliatoio, cambiarmi. E poi, dopo l’allenamento, infilarmi sotto la doccia, e fare tutto ciò che ho fatto prima di correre nell’ordine inverso.
A Tortolì, un passo fuori dal cancello di casa inizio a correre. Ciò vuol dire che, se scendo in strada poco dopo essermi svegliato (come accade quasi sempre, tranne che per l’uscita domenicale), prima delle 9 di mattina sono al computer, pronto a iniziare una giornata lavorativa dopo allenamento, doccia e colazione. E con le endorfine che mi tengono ben desto almeno per la prima metà della giornata. Mica male, no?
Ciò, parentesi, mi impone dei calcoli tragicomici su quando albeggerà, col risultato che puntualmente mi ritrovo a correre il primo paio di chilometri al buio quasi assoluto, col terrore di essere inseguito da malintenzionati o lupi mannari.
Ma c’è qualcosa di indicibilmente poetico nel correre lungo i miei percorsi accompagnando il nascere del giorno. Sempre da solo, cocciutamente vestito leggero, percepisco il passaggio dall’oscurità alla luce, dal silenzio ai primi rumori del paese che si ridesta, dal quasi freddo al quasi caldo.
Ciascuno corre nella fascia oraria che preferisce (e in cui può), per carità. Ma se vogliamo davvero interpretare la corsa come un’attività naturale, mi sembra che essa dovrebbe trovare la sua collocazione la mattina presto, perché avvenga un’impagabile coincidenza tra il proprio risveglio e quello del mondo.
I miei percorsi sono tre. Il primo ha una salita piuttosto brusca al terzo chilometro, e lo bazzico in allenamenti non troppo lunghi. Per le ripetute brevi in salita, certo, ma anche per corse lente in cui desidero impegnare un po’ più del solito la muscolatura.
Poi c’è un percorso, anche lui non troppo lungo, che taglia la zona industriale e mi porta a costeggiare una spiaggia. Lì eseguo i lavori di qualità sotto la dozzina di chilometri.
C’è infine il tracciato di sei chilometri che mi porta nella zona balneare dopo aver attraversato il paese. Ripetendolo tre volte, arrivo a correre in quel tratto il lunghissimo conclusivo, da trentasei chilometri, prima di una maratona. Ed è il mio percorso feticcio, che sfrutto per tutti i tipi di allenamento.
Ciascuno dei tre percorsi ha piccole varianti che imbocco nelle giornate in cui la mia condizione psicofisica è più dignitosa del solito (d’altronde, quando si sta bene si affrontano più volentieri i cambiamenti).
E sono contento di ripetere sempre gli stessi tragitti, che conosco ormai a memoria, perché la corsa è per me un’esperienza da palombari della propria intimità, e la pervicace riproposizione dei medesimi fondali è come se li annullasse, lasciandomi da solo nel corpo a corpo con la fatica.
E, come cantava qualcuno, è bellissimo perdersi in questo incantesimo.
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