Non so lì, ma qui è appena terminato il periodo più caldo dell’anno.
È durato almeno una settimana, e sono state giornate tremende. Sia per l’umidità che per le temperature già temibili nelle prime ore del mattino. Non è la solita tiritera su quanto faccia caldo in estate e quanto freddo in inverno: mi pare che in tutta Europa, tra temperature record e disastri ambientali, sia stato davvero un momento particolare.
Figuratevi voi cosa possa significare correre in quelle condizioni. Devo ammettere per onestà che ho amici capaci di allenarsi con oltre 30 gradi centigradi rallentando di non più di un paio di secondi rispetto al ritmo dei mesi freddi, mantenendo un’invidiabile eleganza nel gesto atletico e la canottiera quasi asciutta.
Poi ci sono io, che se già d’inverno sudo copiosamente e sbuffo come un mantice (ma ho la risposta pronta: lo faceva anche Zátopek), con il caldo intenso patisco come un martire.
Per fortuna, ci dicono gli allenatori, d’estate è del tutto normale rivedere al ribasso l’andatura, perché non avrebbe alcun senso pretendere di correre in pieno agosto con la stessa facilità e alle stesse velocità di febbraio. Non solo: si sconsigliano allenamenti troppo lunghi e intensi, per non sottoporre l’organismo a una fatica eccessiva (nonché inutile, sia perché di solito in estate non si gareggia, sia perché tirare il fiato per qualche settimana all’anno è benefico).
E così, direte, anche tu te ne sei stato bravo: hai rallentato e hai evitato eroismi inutili.
Mh, più no che sì.
Certamente, i miei chilometri settimanali in piena estate sono stati – come al solito – ben inferiori alla media annuale, e poche volte mi sono messo alla prova in allenamenti troppo duri.
Rallentare, però… Decidere, che so, “Da metà giugno a metà settembre levo cinque-dieci secondi a tutte le varie velocità, dal lento alle ripetute brevi”, mi riesce ostico.
Perché, nella mia ottusità, mi ripeto: “Già tolgo un bel po’ di chilometri, cerchiamo di non esagerare col diminuire anche il ritmo”.
E lo so che è un pensiero irrazionale, illogico, che contraddice tutte le teorie – accreditatissime e confermate da una mole immensa di dati – secondo cui con il caldo intenso bisogna rallentare, e punto.
E così, la mattina più calda dell’anno, mi sono buttato in strada alle 6.30 (già boccheggiando nel fare la rampa di scale dalla porta di casa alla strada), e ho preteso di correre un 10×500 più o meno ai miei ritmi solito. Avevo deciso quell’allenamento un paio di settimane prima, e le tabelle si rispettano, no?
Va da sé che non solo sono rimasto ben lontano dai miei migliori tempi, ma le ultime quattro ripetute sono state non so se più traumatiche per il fisico o per il morale.
Tuttavia, mi viene da pensare, anche questa è la corsa.
Mi spiego meglio: se la corsa, come sono convinto sia, è specchio fedele del nostro nucleo più intimo e autentico, allora è bene che ci mostri anche le nostre contraddizioni, i nostri desideri infantili e irrealizzabili, la nostra capacità di fare scelte chiaramente irragionevoli.
Non è mai capitato a nessuno di bere un paio di bicchieri di troppo, pur sapendo che l’indomani avrebbe dovuto lavorare, e svegliarsi con i postumi della sbronza avrebbe reso la giornata un incubo?
Nessuno ha mai insistito venti minuti pretendendo di inserire la propria automobile in un parcheggio palesemente troppo stretto?
Non fatemi andare avanti con gli esempi, ne usciremmo tutti con le ossa rotta.
Dunque non vedo perché bisognerebbe seguire l’intollerabile retorica di questi ultimi anni, che vede la corsa come l’esteriorizzazione del nostro io titanico, della nostra invulnerabilità, della nostra inclinazione al miglioramento perpetuo (tutte caratteristiche che, peraltro, esistono solo nelle fantasie di qualcuno).
Correre è bello proprio perché correndo si alternano prestazioni sorprendentemente buone a tonfi clamorosi, azioni calcolate al millimetro a gesti sconsiderati.
Correre fingendosi migliori di ciò che si è significa dedicare parte del proprio tempo libero alla menzogna anziché alla verità.
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