Recensendo altri volumi ho più volte detto come lo sport, specie quello praticato da noi amatori, ha una peculiarità certamente benefica, ma che allo stesso tempo rischia di ingenerare un equivoco. Quella, cioè, per cui il momento stesso della pratica sportiva è un’astrazione dal mondo, dai suoi rituali e dai suoi obblighi sociali. Ciò vale soprattutto per discipline come il nostro amato podismo, e ancor più per chi si prova nelle lunghe distanze: correre trenta o più chilometri, magari in solitudine, ci ricorda davvero chi siamo; ci ricorda cioè che, più e prima di essere cittadini, partner, lavoratori, consumatori, genitori, figli, siamo corpi che appartengono al ritmo del mondo.
Ed ecco il potenziale equivoco: ogni corpo, come si diceva qualche decennio fa, è politico. E il corpo dei campioni dello sport si carica di significati non solo politici ma anche sociali, economici, simbolici. Insomma: se lo sport è astrazione mentre lo si pratica, non è certo un’attività che si possa astrarre dal mondo, ma semmai del mondo – con i suoi aspetti più nobili e con i suoi pregiudizi – è fedele specchio.
La triade corpo-sport-società è indagata da Corpi che contano, scritto da Nadeesha Uyangoda e pubblicato da 66thand2nd nel novembre del 2024.
Alternando testimonianze intime ed episodi di dominio pubblico (scelta che forse ha reso un po’ disorganica l’opera), l’autrice ragiona proprio su come i corpi, a seconda del contesto sociale in cui si nasce e cresce, hanno diverse possibilità di fare esperienza del mondo. E su come, una volta eventualmente raggiunta la notorietà sportiva, i corpi siano valutati diversamente a seconda del posto che – ad esempio – il colore della pelle e il Paese di provenienza hanno nel cosiddetto immaginario collettivo.
In Corpi che contano, i passaggi meno originali (ma sempre utili da tenere a mente) sono quelli in cui si sottolineano le infelici uscite di celebri personaggi dello sport, che in maniera più o meno velata hanno palesato il razzismo, esplicito o strisciante, ben radicato in molti di noi.
Al prestigioso Torneo di Viareggio del 2015, riservato a squadre di calcio giovanili, l’ex allenatore del Milan e della Nazionale di calcio Arrigo Sacchi ha ad esempio affermato: “Vedere così tanti giocatori di colore è un’offesa per il calcio italiano”.
Ma sono più sottili e interessanti i casi di, per così dire, razzismo al contrario, ben rappresentati dalla credenza – naturalmente destituita di ogni scientificità – per cui i pugili neri sarebbero migliori incassatori perché la loro razza (sì, siamo ancora fermi qui) sarebbe più insensibile al dolore.
Il punto è che pure gli atleti professionisti, o meglio i loro corpi, vengono letti e interpretati attraverso la cosiddetta razzializzazione, ossia il processo secondo cui un gruppo dominante attribuisce caratteristiche razziali (inferiorizzanti, va da sé) a un altro gruppo.
Corpi che contano ci ricorda un altro concetto importante: che se l’integrazione (sia degli appartenenti alle classi subalterne, sia delle persone immigrate) è ancora una condizione ben lontana dal proprio compimento, si esaltano le gesta dei grandi sportivi razzializzati, eleggendoli paradossalmente a simboli di quella stessa integrazione fantasma.
Corpi che contano si chiude fondendo la prospettiva privata e quella pubblica, con una salutare presa di distanza dal mito del superamento dei propri limiti, che – scrive Nadeesha Uyangoda – “rispecchia la società tardocapitalista in cui viviamo: il successo è sempre un passo più in là e noi siamo in eterno movimento, macchine-corpi che producono merce, cultura e cultura-merce, mentre cerchiamo di raggiungere un fantomatico punto di arrivo, che sembra un miraggio – sempre dietro l’angolo, in fondo alla strada, oltre la galleria” (p. 113).
Meditate, sportivi amatori, meditate.
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