Libri

Calcio e anarchia

Ogni tanto, per fortuna, viene dato alle stampe un libro che ci ricorda come lo sport professionistico non sia un’attività ludica impermeabile al mondo, ma sia semmai profondamente legato alla società e alla politica oltre che al costume.

Figurarsi una disciplina come il calcio, che alle nostre latitudini è un business sempre più pervasivo e disumanizzante. Chi guarda con nostalgia al football di qualche decennio fa, rimpiangendo gli stadi pieni e i personaggi eccentrici che a diverso titolo popolavano l’ambiente, non indulge a un eccesso di nostalgia ma, semplicemente, dice la verità.

Il calcio dei nostri giorni è sempre più legato a filo doppio al denaro, come dimostrano le scelte esotiche di certi campioni a fine carriera, e intanto la vitalità dei tifosi è sempre più compressa tra schedature e abbonamenti televisivi.

Tuttavia, oggi come un tempo, resistono ancora società calcistiche, o parte delle loro tifoserie, che – per scomodare una parola démodé – sono nate e operano all’insegna del contropotere.

Calcio e anarchia

Di questo argomento si occupa in fondo Calcio e anarchia, scritto dallo spagnolo Miguel Fernández Ubiría e pubblicato in Italia da Fandango nell’agosto del 2024.

La prima parte del volume è un excursus storico sulla nascita del calcio e dell’anarchia, in cui l’autore ci ricorda che all’inizio del Novecento tra le fila del movimento anarchico “si sosteneva che lo sport in generale e il calcio in particolare erano espedienti usati dai capitalisti per tenere lontani gli operai dai sindacati e che la loro pratica era antirivoluzionaria e andava a grave detrimento degli ideali che ispiravano la lotta operaia” (pp. 37-8). L’atteggiamento muterà piuttosto rapidamente, e “l’anarchismo finì per guardare con grande favore al nuovo gioco, diventato nel frattempo parte integrante della cultura operaia” (p. 43).

Più interessante e vivace è tuttavia l’ampia seconda parte, che però sconfessa un po’ il titolo del libro di Ubiría. Non strettamente di calcio e anarchia si parla, ma di società calcistiche o frange del tifo organizzato fondate da “operai anarcosindacalisti e socialisti rivoluzionari decisi a intrecciare i valori della giustizia e della libertà con un’idea di calcio a vocazione fondamentalmente sociale e formativa” (p. 50).

La terza e breve parte è dedicata al calcio alternativo e al calcio popolare (con una suddivisione un po’ speciosa) e al calciobalilla, gioco popolare su cui è stato scritto un agile libro che abbiamo recensito in questa rubrica.

Calcio e anarchia, da Bakunin a Sócrates e oltre

Nella seconda parte le società calcistiche di ispirazione anarchica o rivoluzionaria sono raggruppate per nazioni.

Leggiamo così, ad esempio, dell’Argentinos Juniors, squadra di Buenos Aires in cui ha esordito Diego Armando Maradona. Fondata da “operai anarchici seguaci di Bakunin” (p.58), il club in origine si chiamava Mártires de Chicago, in onore di alcuni lavoratori anarchici impiccati nella città dell’Illinois nel 1887.

Oppure gongoliamo ripercorrendo una notizia già nota a molti, e cioè che la compagine brasiliana del Corinthians, ai tempi di Sócrates, era nota per la democrazia corinthiana, una sorta di democrazia diretta in cui i giocatori decidevano per alzata di mano su tutto ciò che li riguardasse.

Ecco, della Germania, il (fin troppo, forse) mitizzato St. Pauli, ma anche il FC Lampedusa, club fondato da cinque donne come omaggio a tutti i rifugiati.

Non manca l’Italia, di cui si citano – a titolo esemplificativo delle decine e decine di realtà simili – due squadre minori nate con l’intento di creare altrettante associazioni popolari ben connotate politicamente: il C.S. Lebowski di Firenze e lo Spartak Lecce.

Se il calcio è ancora uno sport popolare lo si deve certamente all’enorme numero di giovani e meno giovani che ovunque nel mondo lo praticano appena possibile, sfruttando ogni minimo spazio e dando fondo alla fantasia per tracciare i confini immaginari del campo e i presunti pali delle porte. Ma anche a queste più o meno piccole, e meritorie, società.

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