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Un miglio al giorno

È con le pitture rupestri che l’umanità ha imparato a narrare la realtà attraverso le immagini, e da lì non ha più smesso di affidarsi alle sue suggestioni. Sono proprio le immagini a tornarci alla mente, quando pensiamo ai momenti emblematici della nostra vita. E sempre attraverso le immagini, o più precisamente le fotografie e i video, si potrebbe narrare la storia del Novecento.

O pensare a una retrospettiva iconografica dello sport degli ultimi decenni. Siete calciofili, e magari non troppo giovani? Allora assocerete d’istinto i Mondiali di calcio giocati in Spagna nel 1982 all’esultanza sfrenata di Marco Tardelli dopo il gol in finale contro la Germania Ovest, o alla gioia non troppo istituzionale del presidente Sandro Pertini nelle tribune dello stadio Bernabeu.

Amate l’atletica? Impossibile non ricordare Tommie Smith e John Carlos, primo e terzo nella finale dei duecento metri piani a Città del Messico nel 1968, che sul podio alzano il pugno chiuso guantato di nero, nel saluto delle Black Panthers.

E noi podisti invaghiti delle lunghe distanze, quali immagini possiamo scegliere? La smorfia di sofferenza di Emil Zátopek, i piedi scalzi di Abebe Bikila?

Certo, ma anche un paio di celeberrimi scatti che ritraggono Kathrine Switzer, protagonista di Un miglio al giorno, libro scritto da Silvia Pillin e uscito per MIMebù nel settembre del 2023.

Un miglio al giorno

Un miglio al giorno prende proprio spunto dalle fotografie (riportate peraltro in chiusura di volume) che ritraggono Kathrine Switzer negli attimi più drammatici ed emblematici della maratona di Boston del 1967.

Ossia quando il giudice di gara Jock Semple cerca di impedirle di proseguire, ma viene energicamente respinto dal fidanzato di Kathrine, il martellista Tom Miller, che stava correndo con lei.

Perché l’irruzione del giudice? Perché alle donne era proibito correre le maratone. Torneremo sull’episodio e sul suo valore di discrimine.

Silvia Pillin, tuttavia, non riduce Un miglio al giorno alla cronaca di quei momenti, ma – immedesimandosi nell’atleta (che firma la postfazione) e dunque adottando la narrazione in prima persona – racconta la caparbietà di una ragazza che, dopo una breve parentesi nell’hockey, inizia a correre e non smette più, gareggiando in squadra con i maschi e allungando sempre di più le distanze.

Sino ad arrivare, con l’astuzia di un’iscrizione semianonima (firmando con le iniziali puntate del nome, K.V. per Kathrine Virginia) a correre la gara regina, il 19 aprile 1967, a Boston.

L’autrice svela anche un aneddoto che non conoscono in molti: Kathrine Switzer non è stata la prima donna a gareggiare in maratona. L’anno precedente (e sempre a Boston) era toccato a Roberta ‘Bobbi’ Gibb, che tuttavia aveva partecipato senza iscrizione né pettorale.

Il pettorale 261

A proposito di pettorale, Kathrine Switzer ha corso con il numero 261, che in onore della sua impresa (più simbolica che atletica) è stato ritirato dalla maratona di Boston, la più antica del mondo.

Decisione presa nel 2017, quando – cinquant’anni dopo – Kathrine ha scelto di ricorrere nei luoghi che l’hanno resa famosa suo malgrado. Già: un piccolo episodio di discriminazione e allo stesso tempo di determinazione, in virtù della presenza di un fotografo, ha avuto un’eco vastissima e conseguenze notevoli: dal 1971 la maratona di New York avrebbe aperto alle donne, e l’anno successivo sarebbe toccato proprio a Boston.

C’è da esultare? Non ne siamo troppo sicuri. Specie se consideriamo che la maratona femminile è diventata disciplina olimpica solo dal 1984.

Oggi le statistiche ci dicono che in molte gare su strada il numero di donne iscritte supera quello degli uomini. Eppure, se Kathrine Switzer (quella vera, nella postfazione) spiega di aver fondato l’associazione 261 Fearless “per dare alle donne di tutto il mondo l’opportunità di correre in un ambiente sicuro, libero da giudizi” (p. 156), significa che anche nel nostro ambiente siamo ancora lontani dal raggiungimento di un’autentica parità di genere.

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