Cari lettori, in questo appuntamento settimanale tengo volutamente un tono leggero: mi pare il più idoneo a un portale generalista. Ma di tanto in tanto faccio trapelare ciò su cui altrove ho scritto e scrivo, e che in fondo è il vero motivo che mi porta a correre (a proposito: sto cominciando timidamente a fare i primi chilometri dopo l’infortunio. Ve ne riparlerò).
E ciò che di tanto in tanto faccio trapelare, dicevo, non è il piacere di correre per bruciare grassi, o per godere della luce dell’alba: motivi nobilissimi, sia chiaro. Ma chiunque si alleni sulle lunghe distanze sa di quella misteriosa forza che proviene dalla corsa e che chiama a sé.
Correndo sulle lunghe distanze, a patto di “abbracciare la fatica” – come mi pare abbia detto da qualche parte Gianni Poli – si lasciano ai bordi della strada i panni del cittadino, del partner, del genitore. Si esce dal mondo.
O meglio: si esce dalla società e si entra davvero nel mondo, nella sua dimensione più autentica e primigenia. Esattamente come ci si spoglia dei ruoli sociali per ritrovare l’essenza di sé.
Spiace constatare come, tutti presi dalla smania di narrare le proprie epiche gesta, siano pochissimi i podisti con qualche capacità di scrittura (o gli scrittori con qualche virtù atletica) che si addentrano in questo terreno impervio.
Per fortuna, ogni tanto qualcuno che mi smentisce c’è.
Ultimo in ordine di tempo è Nicolò Rubbi, Dottore in filosofia teoretica, poeta e – come si legge nella quarta di copertina del volume di cui ora vi parlerò – “appassionato di montagna e di sport di resistenza”.
Si tratta di un volumetto di una cinquantina di pagine in piccolo formato, che già dal titolo si allontana dai proclami stentorei di tanti, troppi testi che in qualche modo parlano di corsa. Il lavoro di Rubbi si intitola infatti Silenzio di bosco, rumore di sé, e ha per sottotitolo Correre per inventariare il dolore. Lo ha dato alle stampe Mimesis nell’ottobre del 2021, nella meritoria collana Accademia del silenzio.
Sin dalle prime pagine del libriccino, Rubbi esplicita il motivo per cui ha scelto di correre, e di faticare correndo. “Se il silenzio mi era sempre sembrato un’assenza di suono, mi veniva data la possibilità – a me, che combattevo da anni col rumore assordante di un pensiero che non si arrestava mai – di sposare un paradigma differente, corporeo, dove il corpo sarebbe stato il teatro di ogni mio stato di sofferenza interiore”, p. 13.
Il percorso intrapreso dall’autore è quello di chi, sottoponendosi a estenuanti allenamenti, vuole spogliarsi a poco a poco della soggezione all’emotività. Come se l’“emanciparmi dall’incubo delle passioni” (per aiutarci con un verso di Franco Battiato) corrispondesse alla loro progressiva espulsione attraverso il sudore: “Ero totalmente schiavo dei miei meccanismi, sempre spossato, astenico […] Quando non ero fradicio di paura, ero acceso di rabbia, ma non ho mai smesso di pensare che potesse esserci una soluzione naturale”, p. 24.
Può dunque la corsa far giungere al tanto agognato silenzio? Ma esiste, il silenzio interiore, o è solo un El Dorado immaginato per l’incapacità di accettare la propria univocità, e i limiti che la condizione umana comporta?
Tutte queste risposte, in fondo a Silenzio di bosco, rumore di sé, ci sono. Ma mi guardo dal darvele, per non rovinarvi il gusto della lettura.
Posso però concludere dicendovi che, da una parte, non aderisco all’idea propugnata da Rubbi, il correre per correre non badando alla qualità delle prestazioni. Il cronometro, strumento esecrabile quando crea dipendenza od ossessioni, ha tuttavia il prezioso compito di mostrare la spietatezza dell’oggettività: aiuto importante per chi ha la tenacia di migliorarsi e lezione insostituibile per chi ha la protervia di affermare, lo abbiamo ripetuto chissà quante volte, l’assurda frase secondo cui i limiti sono solo della nostra testa.
Se da una parte, dicevamo, in questo dissentiamo da Rubbi, concordiamo pienamente con lui nell’intendere la corsa come un mezzo che non fornisce approdi semplici né consolatori. Ma la cui funzione – fondamentale ma pure pericolosa – è quella di metterci al cospetto della verità.
Quale verità? Leggete Silenzio di bosco, rumore di sé per scoprirla.
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