Chi frequenta l’ambiente della corsa, partecipando a gare ma anche solo allenandosi in compagnia, avrà notato (a meno che non sia egli stesso affetto da questa curiosa patologia) come molti podisti anche di mediocri qualità atletiche prestino un’attenzione quasi maniacale al – chiamiamolo così – contorno: si vestono con costosissimi capi tecnici, indossano al polso sontuosi orologi GPS di cui adoperano il cinque per cento delle funzioni, parlano con eccitazione dell’ultimo integratore contenente estratti di una pianta endemica del Mali, postano su qualunque social la propria istantanea mentre corrono sul lungomare di Palm Beach (a proposito: ma possibile che tutti questi amatori riescano a trovare un fotografo che li segua a ogni allenamento?), eccetera eccetera.
Che ci piaccia oppure no, la corsa in questi ultimi anni è diventata una moda. E se la sempre più diffusa passione per il running ha certamente i suoi risvolti positivi (un aumento dei podisti significa, ad esempio, un aumento delle persone che godono di buona salute), c’è al contrario chi della corsa fa propri solo gli aspetti esteriori, collaterali, spesso dimenticandosi dell’essenza di questo meraviglioso sport.
Sorprende e rincuora, dunque, leggere un libro autobiografico in netta controtendenza, come si usa dire oggi: sto parlando di Running wild, scritto da Markus Torgeby e uscito in Italia per UTET nel 2018 (traduzione di Samanta K. Milton Knowles).
Markus, nato e cresciuto nella cittadina svedese di Öckerö, è una promessa nazionale del mezzofondo. Tuttavia, chiamato a correre i 3000 metri ai campionati svedesi giovanili di atletica leggera, pur avendo condotto la gara per più di metà, crollerà nel finale e si piazzerà nelle ultime posizioni. L’incapacità di gestire gli appuntamenti podistici importanti, assieme a un’insopprimibile inquietudine esistenziale (acuita dai segni della sclerosi multipla che renderanno sempre più penosa l’esistenza di sua madre), porterà il ragazzo dapprima a correre esclusivamente per diletto e in solitudine, meglio se a contatto con la natura, e in seguito a una decisione estrema: trasferirsi in una foresta nella contea di Jämtland.
Lì Markus costruirà una kota (la capanna dei lapponi), imparerà le gioie e le fatiche della separatezza dal mondo, e tornerà solo sporadicamente a gareggiare: ma stavolta, libero da tensioni e aspettative, riuscirà a vincere, su un tracciato di 12 chilometri a Trondheim. In una successiva competizione a staffetta, Torgeby e i suoi compagni saranno sbaragliati da una squadra proveniente dalla Tanzania. Markus, affascinato dalla leggerezza di corsa dei podisti africani, partirà per Arusha, dove rimarrà sei mesi a vivere e allenarsi duramente con gli atleti locali, sino a perdere qualcosa come dodici chili.
Dopo la parentesi in Tanzania, Torgeby vivrà un periodo di isolamento ancor più assoluto. Si legge a p. 141: “Leggo, mangio e corro. […] Ecco cosa sto facendo: cerco la verità su me stesso attraverso il silenzio. Magari mi farò monaco. Mi trasferirò da solo nelle terre selvagge dell’Alaska, con la vita come unica missione, per vedere dove vado a finire”.
Markus tuttavia non compirà questo ulteriore passo. Conoscerà anzi Frida, di cui si innamorerà e dalla quale avrà tre figlie. Il ruolo di padre non gli impedirà di allenarsi quotidianamente sulle lunghe distanze, per il puro piacere di intrecciare un rapporto più profondo con se stesso e con lo splendido ambiente che lo circonda.
Alle gare cui di tanto in tanto parteciperà, guarderà con profondo scetticismo a tutti i gadget che compongono quel contorno di cui abbiamo parlato all’inizio: “Un’enorme quantità di oggetti per fare una cosa così semplice” (p. 185).
Dopo la lettura di Running wild si è certamente stimolati a pensare alla corsa al di fuori del suo aspetto tecnologico (e anche solo sociale), come esperienza primitiva, percorso individuale di conoscenza, momento di autentico contatto con la natura.
Certo, le scelte radicali suscitano sempre qualche dubbio sui veri motivi che le innervano: l’abbandono del consorzio umano è necessariamente sintomo di elevatezza morale o, viceversa, può essere un segnale di vanità? Se Markus Torgeby rifiutasse davvero le lusinghe del mondo, perché accettare più volte di farsi intervistare, addirittura di far girare un documentario su di sé? Perché presenziare svariati convegni in veste di oratore?
Ma forse noi lettori dovremmo interrogarci non tanto sul grado di onestà dell’autore (che solo lui stesso conosce), quanto sul nostro. E domandarci: perché corriamo? Per entrare in contatto col nostro nucleo più intimo o per esibirci?
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