Mi confesso una volta per tutte, amici podisti. Vorrei tanto conoscere le abitudini e i tic dei top runner, ma è del tutto evidente che non appartengo alla categoria, quindi temo che tali segreti mi saranno preclusi per sempre. A dire il vero, ho avuto il piacere di conversare con alcuni dei più forti corridori italiani, che mi hanno spifferato qualche innocente mania, ma per rispetto della loro intimità preferisco non svelarvi alcunché.
Questa mia inclinazione al voyeurismo mi sorprende un po’, io di solito così poco interessato al pettegolezzo e così attento a non rivelare nulla di me. Mi sorprende – dicevo – ma solo un po’, perché per noi amatori la corsa è in qualche modo un ritorno all’infanzia, una sorta di antidoto all’ingessato mondo degli adulti. Questo nostro universo infantile, però, non è solo dominato da ferree regole che ci guarderemmo bene dall’infrangere (siamo capaci di prendere più seriamente una sessione di ripetute in pista che non il primo giorno di scuola di nostro figlio), ma è anche costellato da una serie di piccole follie che non sapremmo – forse nemmeno vorremmo – concederci in nessun altro ambito.
Mi spiego meglio. Persone riconosciute come serie, severe, affidabili e capaci di organizzare la vita catalogando gli impegni a seconda della loro urgenza e gravità, in ambito podistico diventano in un attimo egoisti, competitivi, insicuri e avvezzi a ogni più irrazionale rituale apotropaico.
Ho visto cose che voi non podisti non potreste immaginarvi. Conosco amici che cominciano ogni gara o allenamento battendo a terra sempre col medesimo piede, perché – dicono – porta loro fortuna. Altri, ma qui la cosa è fin troppo ovvia, che in gara indossano sempre quel paio di pantaloncini o di calzini, e non chiediamoci cosa succederà quando saranno logorati e non più utilizzabili. Ci sono poi coloro, indecisi tra la vita del bohémien e quella dello sportivo, che bevono come otri e si ingozzano di cibi fritti se l’indomani non corrono, mentre – viceversa – il giorno prima di un allenamento seguono una dieta rigorosissima.
Tutta la mia simpatia va a quelli che ogni volta cambiano marca e modello di scarpe, trovandosi magnificamente bene per i primi due-trecento chilometri e poi sempre peggio, sino a liberarsi con fastidio delle calzature e cercarne di diverse (senza mai farsi sfiorare dall’idea che ogni paio di scarpe, perdendo a poco a poco il potere ammortizzante, risponde in maniera sempre meno brillante).
Eccetera eccetera.
Ma non è giusto ironizzare sugli altri quando io per primo sono legato a consuetudini e vizi che potrebbero giustamente far dubitare della mia sanità mentale. Perciò, eccomi: adesso tocca a me.
Partendo dagli allenamenti, so di rappresentare una larga percentuale di podisti dichiarando quanto segue: se la tabella dice che devo correre, poniamo, dodici chilometri, io fermo il mio orologio GPS allo scoccare preciso di quella distanza, non dieci metri prima né dopo, neppure se incocciassi in una sparatoria o in un gregge di pecore (cosa che, qui in Sardegna dove abito, è successa svariate volte). Alle gare, amo soggiornare il più vicino possibile al punto di partenza, sia per poterlo raggiungere a piedi, godendomi così la tensione del momento, che per non sprecare troppe energie; ciò mi costringe a prenotare con mesi di anticipo la camera in strutture ricettive spesso fatiscenti e gestite da orchi per nulla inclini alla socialità. Sempre prima delle gare, mi taglio i peli più lunghi delle sopracciglia per evitare che il sudore me le faccia sbattere sulle palpebre; lo stesso faccio coi baffi, perché non mi pungano il labbro.
Infine (e considerate che le mie manie peggiori non le saprete mai), non so come né quando devo aver capito di impiegare un’ora e mezza per digerire la colazione. Per cui, se sto per uscire ad allenarmi ma leggo sull’orologio che sono trascorsi ottantotto minuti dall’ultimo sorso di caffè, passeggio su e giù per casa finché non arrivo a novanta. È così.
Ma prima di ridere di me, amici corridori, ce lo dite quali sono le vostre eccentricità legate alla corsa?
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