Da qualche tempo gli appassionati di running non fanno che parlare di quanto oggigiorno sia scaduto il livello medio dei podisti amatori rispetto anche solo a un paio di decenni fa. Dopo aver letto e ascoltato una grande quantità di ipotesi, spesso fantasiose e prive di dati scientifici a conforto, ecco venire in mio soccorso l’ultimo libro di Pietro Trabucchi, Opus, uscito per Corbaccio.
Trabucchi, psicologo dello sport e autore di alcuni libri di culto tra gli sportivi, si occupa da oltre un ventennio di spiegare (e tentare di instillare, aggiungerei) motivazione e resilienza.
Questo volume, esile per numero di pagine ma denso di contenuti, sembra scaturire dall’urgenza di comunicare un allarme. Quale?
Cosa induce noi tapascioni a impiegare – o sprecare, per alcuni – ore preziose del nostro tempo in allenamenti che non ci porteranno mai non dico a conquistare un oro olimpico, ma probabilmente nemmeno a salire sul podio di gare di una certa importanza?
Ce lo spiega Trabucchi in Opus: si tratta di quella spinta verso obiettivi complessi e non immediati, che prende il nome di automotivazione o motivazione intrinseca; oppure, con un termine magari più vago ma certamente più romantico, passione. L’automotivazione è ciò che ci distingue dagli altri animali, incapaci di inseguire una meta lontana, raggiungibile solo attraverso una lunga e articolata strategia di avvicinamento, in cui un ruolo fondamentale è giocato dalla perseveranza.
Oggi più che mai, ci ricorda Trabucchi, l’automotivazione è fondamentale. E lo è per due principali motivi, uno storico e l’altro sociologico, che concorrono allo spaesamento e alla precarizzazione psicologica degli individui: la globalizzazione, che sottrae la funzione di guida agli stati nazionali a favore di organismi come le multinazionali, e il crollo del cosiddetto posto fisso, che ci impone una costante propensione alla duttilità e alla tenacia.
Eppure, proprio adesso che ce ne sarebbe un grande bisogno, l’automotivazione sembra attraversare un pessimo periodo. Pietro Trabucchi ne individua le cause: la passivizzazione a opera delle nuove tecnologie, la pressione culturale che induce a sentirsi debole (il business dell’aiutino, per capirci) e la svalutazione dell’impegno personale come mezzo per raggiungere gli obiettivi.
Possiamo però farci forza del fatto che la passione ci è consustanziale; consustanziale e indispensabile, perché alla nascita siamo privi di tutte le competenze proprie degli altri animali. “Siamo di fronte al più immaturo tra gli animali, l’incompetente per eccellenza”, si legge a p. 50, e questa incompetenza ci obbliga ad apprendere, perfezionarci e porci obiettivi lungo tutta la nostra vita.
Trabucchi dedica un intero capitolo a sfatare alcuni luoghi comuni sbandierati dagli assertori della motivazione estrinseca; da coloro, cioè, che pigramente demandano la motivazione all’esterno, assertori come sono del “mito dell’umano torpore” (p. 29).
Un altro interessante capitolo introduce le basi biologiche della passione. In estrema e brutale sintesi: possediamo un cervello rettiliano, che presiede alla bramosia del soddisfacimento immediato dei desideri, e le aree prefrontali, che governano la cosiddetta forza di volontà e che quindi stanno alla base di tre fondamentali comportamenti, ossia la capacità di rimandare la gratificazione, la capacità di regolare gli investimenti di sforzo e impegno, la capacità di regolare l’attenzione.
Ma qui viene il bello: le aree prefrontali, di recente sviluppo, non solo possono ma devono essere costantemente stimolate dall’ambiente socioculturale, pena la loro atrofizzazione. E nell’ultimo capitolo, che precede uno struggente racconto-omaggio sull’automotivazione (“In memory of Naomi Uemura, 1941-1984”), Trabucchi si prende la briga di suggerirci come poter tenere quotidianamente stimolata la nostra motivazione intrinseca.
Perché opus, che in latino significa opera, per gli alchimisti era il procedimento che permetteva di ottenere la pietra filosofale, la quale aveva il potere di trasformare i metalli in oro e di garantire l’immortalità. Quindi noi, attraverso il continuo ricorso all’automotivazione, possiamo inseguire il sogno non dell’immortalità, magari nemmeno di una vita perfetta, ma quanto meno quello di una vita vissuta al massimo delle nostre possibilità; senza sconti, senza alibi.
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