Sport di squadra

Noi, loro (?)

Questo, per correre, è il mio periodo dell’anno preferito. Qui a Tortolì si susseguono giornate di aria tersa, di luce bianca. Allenandomi di mattina presto, devo vincere le punture del freddo, che mi accompagnano per il primo paio di chilometri; poi la temperatura si alza, i muscoli cominciano a scaldarsi e posso iniziare a godermela.

A godermela e, detto tra noi, a continuare a stupirmi di incrociare altri podisti intabarrati come se stessero festeggiando il Capodanno sulla Prospettiva Nevskij. Non capisco come costoro non riescano a sopportare un po’ di freddino iniziale, preferendo un tepore che si tramuterà inevitabilmente in caldo atroce nella parte finale dell’allenamento. Ma non è vero che non li capisco: so che il loro eccessivo ricorso all’abbigliamento pesante è dato da un’ingenuità e da una comodità. L’ingenuità è quella di pensare che più ci si copre più si possa dimagrire, ignorando che imbottirsi di vestiti produce come unico risultato la perdita di liquidi, che peraltro si recupereranno una volta rincasati, quando ci si affannerà a reidratarsi: lasciate che il nostro meraviglioso sistema di traspirazione, che ci rende animali imbattibili nella corsa sulle lunghe distanze, faccia il proprio lavoro!

La comodità cui accennavo, invece, ci porta dritti al cuore di questo articolo: chi si copre smodatamente prima di una corsa rifugge l’idea che correre possa essere un’attività faticosa, un’attività che proprio nella fatica cela il suo dono più prezioso. Chi si copre smodatamente vuole avere il pieno controllo sulla corsa, pretende che correre sia un’attività rilassante, come vedere un telefilm o ascoltare musica leggera mentre si spolvera l’argenteria. Tenete il concetto lì, torniamo subito.

La fatica

Proprio in queste settimane, dicevo, riesco a correre nella maniera più soddisfacente, nonché al meglio delle mie modestissime qualità atletiche. Perciò, sentendomi generalmente bene, ho più voglia di faticare.

Parliamoci chiaro: correre è bello per due motivi. Il primo: lo stato di momentanea separazione dal mondo in cui ci troviamo durante uno sforzo intenso, specie sulle lunghe distanze. Correndo non siamo più cittadini, mariti o mogli, figli o padri, di destra o di sinistra, simpatici o antipatici, apocalittici o integrati: siamo animali che si spingono nei pressi del limite delle proprie possibilità fisiche (e non solo fisiche: ogni podista di una certa esperienza sa quanto l’atteggiamento mentale influisca su ogni allenamento o gara). Il secondo motivo: è bello, correre, per la condizione di forma in cui ci lascia una volta fatta la doccia e rientrati nei nostri – è proprio il caso di dirlo – panni civili.

Ma prima di un allenamento impegnativo, alla bellezza della corsa si pensa davvero di rado: consapevoli di affrontare uno sforzo grande e magari prolungato, pochissimi di noi escono di casa col sorriso.

Allora?

Allora cos’è che spinge noi amatori a impegnare così tanto tempo ed energie in un’attività che non dà premi al di là di un po’ di benessere e di un’intima soddisfazione, al prezzo però di grandi rinunce, incomprensioni, esposizioni al fallimento e all’infortunio?

Ho due possibili risposte, che forse sono opposte o forse si equivalgono. La prima è che chi corre con serietà, a prescindere dagli esiti sportivi, va incontro all’atrove della corsa, a quel mistero precluso a chi corricchia, magari con lo smartphone al braccio, il walkman in testa e con sette strati di indumenti per non provare freddo nemmeno durante i primi dieci metri. Per loro la corsa – l’ho già detto – è un’attività piacevole, amministrabile, non destabilizzante. Costoro, probabilmente, pretenderebbero che tutte le attività della loro vita siano di tale fatta. A noi, invece, della vita interessa l’ignoto, l’ingestibile; ci coinvolgono solo le situazioni in cui la nostra identità – con tutte le sue consuetudini e sicurezze – viene messa in discussione. Noi, probabilmente, siamo animali sociali nostro malgrado, e ambiremmo a un’esistenza primitiva, istintuale.

E questa è la risposta figa, che farebbe di noi dei piccoli eroi della contemporaneità. Poi però c’è l’altra ipotesi: noi, esattamente come loro (sì, quelli con walkman, smartphone e sette strati di vestiti), abbiamo una tremenda paura della fine di tutto; e se loro la esorcizzano stando alla larga dal pericolo, noi facciamo solo finta di affrontarlo. Ma sono sempre rischi calcolatissimi, che dopo ogni allenamento o gara ci permettono di rincasare vivi, vegeti e incolumi.

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