Sabato 25 maggio si è corsa la cento chilometri del Passatore, e diversi amici che hanno preso parte alla gara mi hanno aggiornato sulla loro prestazione.
Ho accolto con emozione ogni testimonianza, anche se non posso parlare di empatia: in questo periodo più che mai percepisco la corsa come qualcosa che sta alla polarità opposta rispetto alla prestazione, all’impresa (ve ne ho parlato qualche settimana fa).
Poi, nei giorni scorsi, è successa una cosa, che perdonerete se vi riferisco senza troppi giri di parole: ho buscato un virus gastrointestinale tremendo, che mi ha conciato male (febbrone incluso) per tre giorni e due notti. E mi ha fatto fare alcune considerazioni, che tengono insieme malattia, ambizioni e ingordigia.
Sono tutte, chiariamo, considerazioni semplici, che però acquistano senso solo quando ci troviamo in una condizione (in questo caso psicofisica) particolare. Più in generale: una condizione la si percepisce solo se paragonata a un’altra: si può dire di aver freddo solo se si ha sperimentato cosa significhi avere caldo, eccetera.
Tornando a me, la prima considerazione è che io, in quei giorni in cui ero attanagliato da mal di stomaco, conati e dolori articolari, avrei pagato per poter correre anche pochi chilometri a un ritmo lentissimo. Nulla di strano: in assenza di ciò che (universalmente o solo per alcuni) è importante, non si sta a ragionare sulle finezze ma si bada alla sostanza: se non si mangia da giorni, non si pretendono pietanze particolari, ma ci si commuoverebbe anche solo davanti a un tozzo di pane e a un bicchiere d’acqua.
Per tornare alla corsa, quindi, c’è chi può e chi non può correre. E chi non può correre o è inibito solo momentaneamente, come me, per malanni magari noiosissimi ma passeggeri; oppure per motivi più profondi non può, né mai potrà, correre.
L’articolo non proseguirà come vi aspettereste.
Cioè con la morale un po’ consolatoria per cui, una volta saggiato in prima persona quanto siamo fortunati a poterci allacciare le scarpe e gettarci in strada (e quanto sia brutto non poterlo fare anche solo per pochi giorni), dovremmo ringraziare ogni mattina al risveglio la nostra condizione, e smetterla di lamentarci se quell’allenamento o quella gara non sono andati, cronometricamente parlando, come ci aspettavamo.
Questa morale non regge per almeno due motivi. Il primo: giustissimo essere sempre consapevoli della nostra fortuna. Ma perché questa consapevolezza dovrebbe impedirci di avere ambizioni, magari modeste magari no, ad esempio in ambito sportivo? Tornando al paragone di prima: sapendo che, se fossimo affamati, ci sembrerebbe gustosissimo anche un tozzo di pane, dovremmo vergognarci di pensare ogni giorno a cucinare pietanze di gradimento nostro e dei nostri familiari?
No, però. Però, magari, qualche attenzione potremmo averla. Alla qualità del cibo, ad esempio. Al fatto che una dieta varia, e priva di cibi spazzatura, sarebbe più opportuna. E al fatto, questo sì, che un eccessivo spreco alimentare è un insulto nei confronti di chi non ha la possibilità di cibarsi.
Ma non stavamo parlando di corsa?
Sì, ma oggi per parlare di corsa, ve l’avevo preannunciato, vi tocca sorbirvi un ragionamento che tiene insieme malattia, ambizioni e ingordigia.
Il mio odioso morbo, che mi ha fatto sospendere gli allenamenti per quattro giorni, mi ha fatto capire meglio perché io mal sopporti i podisti da social, quelli più interessati all’aspetto estetico-autoreferenziale della corsa che non alla sua essenza (che poi è l’atto stesso di correre, e di faticare).
Ecco: quelli sono gli ingordi, sono coloro i quali si ingozzano di patatine e bibite gassate e non si preoccupano di gettare nella spazzatura metà del cibo acquistato. Se in un qualunque contesto viene meno il senso della misura, e lo si assume – quel contesto – come luogo di celebrazione di sé, si sta implicitamente offendendo chi ha meno possibilità di noi. E (senza rendersene conto) si sta festeggiando in modo chiassoso e volgare solo una cosa: la nostra fortuna.
Perché, ricordiamocelo, al di là di quello che cerca di insegnarci questa storta cultura imperante, essere nella condizione di privilegiati è soprattutto una questione ci culo, non di merito.
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