Tra i più straordinari atleti del Novecento, J. C. “Jesse” Owens è celebre per il suo trionfo alle Olimpiadi di Berlino del 1936, dove ha vinto ben quattro medaglie d’oro (nei 100 e 200 metri, nella staffetta 4×100 e nel salto in lungo), e dove pare sia stato vittima di un clamoroso gesto discriminatorio, richiamato dal titolo dell’autobiografia di cui ci occuperemo oggi: L’uomo che sconfisse Hitler, uscito in Italia per Piano B Edizioni nella traduzione di Andrea Roveda.
L’episodio, di cui vi diamo brevemente conto, è una sorta di perno attorno a cui ruota la vicenda del campione, uomo di profonda fede e destinato per tutta la vita ad alternare senza requie successi e rovesci di fortuna, attimi di esaltazione e di sconforto. Pare che dopo la finale del salto in lungo, vinta da Owens, Hitler – presente allo stadio – abbia lasciato la tribuna per non stringere la mano al campione afroamericano (benché il fatto sia stato smentito da alcune testimonianze dirette e da un’altra autobiografia dell’atleta).
Vero o presunto che sia, l’accadimento – abbiamo detto – è il fulcro dell’opera. Intanto perché, dopo i capitoli iniziali che descrivono sommariamente l’infanzia di Jesse (trascorsa in estrema povertà), si dà un gran risalto alle Olimpiadi del 1936, e in particolar modo alla finale del salto in lungo, nella quale la Germania contrappose a Owens l’altrettanto competitivo Luz Long, che teoricamente avrebbe dovuto incarnare “l’ideale supremo di superuomo ariano” (p. 46). Tra i due, però, nacque proprio alle Olimpiadi una solida e duratura amicizia, che ebbe la sua prima manifestazione appunto durante la finale del lungo e per iniziativa di Long, il quale fu non solo il primo a complimentarsi con Owens dopo il salto che gli valse l’oro, ma addirittura colui che gli suggerì una tattica vincente (quella di aggiungere qualche metro alla sua rincorsa).
Inoltre, la valenza simbolica di questo momento così contraddittorio – l’implicito messaggio di fratellanza tra i popoli all’interno del tremendo contesto del nazismo – fa come da architrave morale di tutta l’opera, pervasa da una fede cieca, quasi ossessiva. Dopo il successo olimpico, infatti, Owens attraverserà fasi esistenziali le più disparate: godrà di fama e di benessere economico, che lo porteranno a una serie di azioni avventate (dettate più dall’ingenuità che non da motivazioni poco nobili), e patirà periodi di indigenza, oltre a malesseri fisici e psicologici; riceverà un’onorificenza dal presidente Eisenhower ma si umilierà gareggiando per magri compensi contro cavalli da corsa.
C’è di più. Un apparente limite stilistico, ossia una scrittura assai semplice, talvolta ripetitiva (si ha la sensazione che l’autobiografia, a differenza di tante altre, sia stata davvero scritta da Owens, e che gli interventi redazionali siano stati minimi), conferisce all’opera un andamento come di litania, che nel suo ritmo monotono prende e in un certo senso annulla lo scorrere orizzontale del tempo.
D’altronde è proprio la preghiera a collocare l’orante in un presente eterno, al di là delle transeunti cose terrene; e così, a lettura conclusa si ha davvero l’impressione che il protagonista sia stato più un grande uomo di fede che un grande atleta (nel senso che, se Owens ha dimostrato le sue eccezionali doti atletiche per un periodo limitato di tempo, la fede ha innervato di sé tutta la sua esistenza); e allora i suoi grandi successi sportivi non sono stati altro che la sua maniera più compiuta di servire Dio, e la maniera più compiuta in cui Dio si è mostrato a lui: “Eppure non fu Luz a sollevarmi verso il cielo, quel giorno [dopo il salto che gli valse l’oro olimpico a Berlino, N.d.R.]. Sapevo chi mi aveva salvato dal baratro dell’inferno per farmi ascendere verso il cielo: non era stato neppure Jesse Owens. Non era stato nessuno che avesse mai corso, o saltato o si fosse trovato mai in bilico alle porte dell’inferno.
Luz Long poteva non credere in Dio, ma Dio aveva creduto in lui. Aveva fatto di Luz il Suo sacro messaggero”, p. 58.
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