Dove eravamo rimasti?
Eravamo rimasti alla scorsa settimana, quando vi ho raccontato della mia fin qui (cioè, fin là) agrodolce preparazione per la maratona di Pisa del prossimo 17 dicembre.
Ho affrontato una serie di argomenti, d’accordo, ma ho infilato giusto svagatamente un passaggio che in realtà celava una questione non solo dolente ma anche centrale. La questione è l’aver bucato il lunghissimo da 32 chilometri, e soprattutto l’averlo bucato tenendo un ritmo che sino a un paio di anni fa avrei amministrato con una certa serenità.
Cosa è successo, quella domenica? E come ho reagito, se ho reagito, alla sconfitta sportiva?
Eh sì, il lunghissimo bucato. Che era composto da quattro blocchi da otto chilometri l’uno, sette facili e uno a ritmo un po’ più sostenuto.
Nulla di impossibile, per me che avevo memoria di un certo passo. Un passo che non so dire se non avrò mai più, ma di certo non ho adesso. E così, affrontando troppo di slancio l’allenamento, al terzo dei quattro chilometri più veloci (dunque al ventiquattresimo chilometro) ho avuto la precisa sensazione di non averne più, come si suol dire. E ho interrotto, preda di pensieri che andavano dal malinconico al funesto.
Poco avvezzo a minimizzare, ho semmai bisogno di interpretare le sconfitte come tali, senza crearmi troppi alibi. Anzi, magari ingigantendo le mie responsabilità. Certo: sono consapevole che una sconfitta sportiva non è un fallimento esistenziale. Ma solo interpretando severamente una sconfitta come tale, appunto, la posso analizzare a fondo, riesco a capire i motivi dell’insuccesso e a intuire come non ripetere i medesimi errori quando mi ritroverò in una situazione simile. Sono fatto così.
Provateci voi, ad ammettere (per la prima volta nella vita, poi immagino che ci si abituerà) che quel ritmo un tempo facile ora, almeno sulla distanza di 32 chilometri, è improvvisamente diventato insostenibile. Quale modo più diretto e violento di certificare il proprio deterioramento organico?
E così, con una desolazione non piccola ho comunicato al mio allenatore, Fulvio Massini, il piccolo disastro podistico. Fulvio non ha battuto ciglio e mi ha riprogrammato il lunghissimo per due domeniche più in là, abbassando il ritmo dei chilometri più lenti addirittura di quindici secondi. Un’umiliazione, secondo la mia vanità. Una decisione di indubbio buon senso, secondo la mia razionalità.
Ed ecco che, quando ho riaffrontato il lunghissimo maledetto, l’ho preso con più slancio rispetto al suggerimento di Fulvio, rallentando solo di cinque-sette secondi rispetto alla prima volta. Sono riuscito a terminare l’allenamento, pur faticando un bel po’, e la mestizia di aver dovuto rallentare l’andatura è stata di certo superata dal piacere di aver corso per 32 chilometri filati (faccio peraltro notare che non mi capitava da due anni).
Dal lunghissimo prima bucato e poi recuperato ho capito due cose. La prima è che invecchiare non è piacevole, o quanto meno non sono piacevoli certi segnali così tangibili dell’invecchiamento. Anche se poi, questo sì, l’accettazione di tutte le età della vita – ciascuna con le proprie peculiarità – ha la sua dolcezza.
E poi, seconda cosa, ho capito che a me piace correre a lungo più che a ritmi sostenuti, e anche questo è un chiaro mutamento di paradigma anagrafico: più si diventa anziani più si perdono per strada l’intuitività, lo scatto che risolve, a favore (si spera) di una maggiore saggezza, di una maggiore capacità di ponderare con calma gli aspetti di una faccenda per trarne conclusioni meno affrettate e magari più solide.
Dedicato a chi ancora dubita del fatto che la corsa sia una maestra di vita, e che della vita sia riflesso e riassunto.
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