Nei giorni scorsi ho letto un volume che, la stampa italiana finora non l’ha detto, va anzitutto segnalato per la sua angolazione bizzarra e coraggiosa.
Il libro in questione è L’arte del calcio sovietico, scritto da Carles Viñas e pubblicato in Italia da il Saggiatore (aprile 2023, traduzione di Simone Cattaneo).
Angolazione bizzarra e coraggiosa, si diceva. Perché il testo parla del calcio in Russia (e poi, dal 1922, in Unione Sovietica) dal suo approdo, alla fine dell’Ottocento, sino agli anni Trenta del Novecento.
Fermandosi ben prima, dunque, dei trionfi calcistici del Paese. Sia collettivi (la vittoria al Campionato europeo del 1960) che individuali (la conquista del Pallone d’oro nel 1963 da parte del mitico portiere Lev Jašin, unico nel suo ruolo a essersi aggiudicato il riconoscimento).
L’arte del calcio sovietico è diviso in tre sezioni, chiamate Infanzia, Adolescenza e Giovinezza come esplicito omaggio (lo dice l’autore nell’introduzione) a tre opere giovanili di Tolstoj. Che assieme a una quarta mai scritta avrebbero dovuto comporre il volume Le quattro età dello sviluppo.
Quello che però non convince è il titolo italiano del libro di Viñas. Con quella parola, “arte”, che farebbe pensare a un approccio in qualche modo estetico all’argomento. Una più fedele traduzione dal catalano, Futbol al país dels soviets, sarebbe stato più appropriato. Ora vi spieghiamo perché.
Più che il versante artistico o estetico, infatti, il calcio in Unione Sovietica è qui indagato da una prospettiva politico-sociale.
A introdurre il football nel Paese, va da sé, sono stati gli inglesi, quando sul finire dell’Ottocento l’industrializzazione ha portato a fitti scambi commerciali tra Russia e Gran Bretagna.
È San Pietroburgo la prima città in cui si sviluppa il calcio, giocato soprattutto dagli immigrati inglesi. Se il primo campionato di calcio sanpietroburghese è del 1901, è di due anni successiva la prima rissa per così dire sportivo-politica. Leggiamo infatti che “il controllo totale, soprattutto da parte dei britannici, degli organismi che reggevano il calcio fu percepito come un modo efficace per escludere i russi dai centri di potere di questo sport” (p. 35).
E così, nientemeno, nella zuffa del 1903 un giocatore russo è stato espulso per aver cercato di strangolare un avversario.
Ed ecco che L’arte del calcio sovietico ci racconta di come, inizialmente, la pratica calcistica da parte degli autoctoni fosse malvista da tutti.
Le autorità zariste vedevano nella nascita delle squadre operaie possibili focolai di rivolta. Ma “neanche le organizzazioni politiche e sindacali vedevano di buon occhio il fascino esercitato dal calcio sugli operai. La creazione di quadre nelle fabbriche fu duramente criticata, per via della convinzione che minasse qualsiasi tentativo di sindacalizzazione o militanza dei lavoratori” (p. 51).
Nonostante negli anni Dieci si formi la squadra nazionale russa, che parteciperà alle Olimpiadi del 1912 nel Regno Unito, permarrà l’atteggiamento ostile nei confronti di questo sport considerato borghese. Al punto che tra studenti e lavoratori nasceranno, e rapidamente si moltiplicheranno, le squadre clandestine.
Si dovrà attendere la rivoluzione del 1917 per assistere a una “democratizzazione e russificazione della pratica del calcio” (p. 93).
E dal 1922 con il calcio, ma più in generale “attraverso la partecipazione a competizioni sportive a livello internazionale si cercò di spezzare l’isolamento dell’Unione Sovietica e […] rendere palese la supremazia del comunismo rispetto al capitalismo” (pp. 117-8).
Sono anni di grande fermento. Nel 1923 prende il via il primo campionato di calcio sovietico. In quel periodo nascono le prime grandi società (lo Spartak e la Dinamo, moscovite, sono entrambe del 1922), si costruiscono i primi stadi capienti.
Insomma, “trasformato in un fenomeno di massa nell’Urss degli anni venti, il calcio fu utilizzato dai dirigenti comunisti del paese per esaltare le conquiste e i successi sociali del socialismo” (p. 143).
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