Editoriale

La mia intercapedine

Due lunedì fa, cari lettori, vi ho resi partecipi del mio infortunio.

Non già (o non solo) per avere qualcuno con cui condividere le mie pene podistiche, ma soprattutto in modo da poter sfruttare l’infausta occasione per sfatare una serie di luoghi comuni.

Ora eccomi qui, con una diagnosi precisa, una terapia che mi auguro dia buoni risultati, e l’ultimo allenamento che risale a… no, non voglio controllare sul mio file.

Diagnosi e terapia

Per i più curiosi: ho una spina calcaneare, cioè una microcalcificazione data – ahinoi – dall’età e dall’usura.

Indagherò una volta guarito se ci siano state anche delle cause posturali. Per ora mi sto sottoponendo alle onde d’urto focali (o focalizzate che dir si voglia). Il minimo trattamento è composto di quattro sedute con periodicità settimanale. Giovedì mi toccherà la terza seduta. E dopo la quarta… vedremo.

La cosa curiosa è che in Sardegna, dove vivo, sono pochissimi i centri medici che dispongono dell’apparecchiatura adatta alla terapia di onde d’urto focali. Quindi devo farmi quasi due ore di tragitto all’andata e altrettante al ritorno per arrivare a Cagliari e sottopormi a otto minuti – avete capito bene – di terapia.

Ma, mi dico, noi podisti siamo abituati: mesi di allenamenti duri e lunghi per poi godere di quella sensazione irripetibile e ineffabile che ci travolge una volta conclusa una gara (meglio se, almeno nel mio caso, si tratta di una maratona).

E poi si arresta il cronometro e lo straniamento è già in gran parte riassorbito, e piano piano si ritorna nel mondo.

L’intercapedine

Ma è soprattutto della mia intercapedine che vorrei parlarvi.

È come se mi sentissi preso tra due momenti, il prima e il dopo, e fossi sospeso in un tempo di mezzo fuori dal tempo.

Non parlo del prima e del dopo assoluti. Mi riferisco solo al tempo riguardo al mio rapporto con la corsa. Forse.

Il prima è molto facile quantificarlo, no? C’è stato, perbacco. Ed è stato scandito da tutti gli allenamenti e dalle (tutto sommato poche) gare a cui ho partecipato. Il dopo è un qualcosa che, vada come vada, ci sarà. Naturalmente il mio augurio è che sia un dopo identico al prima, scandito anche lui dai tanti allenamenti e dalle poche gare. Ma chissà – e forse qui lo dico per scaramanzia o forse perché è bene prepararsi al peggio, così poi se sarà meglio di quel peggio sarà bellissimo – se sarà un dopo diverso dal prima, nel quale magari sarò costretto a diminuire l’intensità del mio rapporto con la corsa.

Invecchiando ho imparato una regola: tutto è più inaffrontabile in teoria piuttosto che in pratica. Per esempio: due lunedì fa vi raccontavo di non aver mai patito infortuni, e questo mi ha portato negli anni a pensare con sempre maggiore insistenza a quanto sarebbe stato intollerabile il momento in cui fosse arrivato il primo guaio fisico.

Poi è arrivato, il primo guaio fisico, ed eccomi qui: sano e salvo. Un po’ incazzato, d’accordo, e pure un po’ annoiato dalle pedalate su bici e cyclette (la bicicletta: sport nobilissimo ma che non fa per me). Però sano e salvo.

Tuttavia, dicevo, sono dentro un’intercapedine. Non sento il tempo che passa: c’è qualcosa di circolare, in queste mie giornate. Come se la corsa davvero scandisse la mia cronologia, mi mostrasse un percorso e un senso, mi facesse sentire il corpo vivo e quindi davvero protagonista delle cose che mi succedono. Ecco, senza correre è come se le cose mi succedessero un po’ meno, succedessero a un fantasma che ha le mie fattezze e che è abitato da qualcosa del vecchio me.

E non dite che sto esagerando, se no dovrei rispondervi: “Aspettate di provare la stessa cosa anche voi e mi saprete dire”, ma non sarebbe una frase troppo elegante.

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Tag: infortunio

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