I miei amici corridori preferiscono farsi chiamare corridori o podisti piuttosto che runner, perché non hanno nessun bisogno di strizzare l’occhio a una lingua diversa (e più povera) della nostra. Sono tremendi, i miei amici corridori.
Non si fanno selfie né prima, né durante né dopo un allenamento o una gara, perché non hanno nessun interesse a fare proselitismo. Sanno che la corsa ha un aspetto privato – la fatica – e uno pubblico – la condivisione – e sanno che entrambi gli aspetti si manifestano nel momento stesso della corsa, e non è davvero necessario (né possibile) prolungarli all’infinito.
I miei amici corridori sono serissimi, per quanto riguarda la corsa, sia che essi preparino una maratona per chiuderla in quattro ore e quindici sia che provino a scendere sotto le due ore e mezza. Piace, ai miei amici podisti, fare le cose bene, perché hanno imparato che le cose fatte bene sono belle da ricevere e da offrire.
Però i miei amici corridori non sono ossessionati dalla corsa. Non fanno della corsa una ragione di vita perché non cercano nella corsa il riscatto da una vita di frustrazioni; perché della vita hanno saputo farsi bastare ciò che hanno, compreso l’inevitabile fregatura di invecchiare.
E, appunto, i miei amici corridori dimostrano l’età che hanno: la pratica podistica ha scavato i loro volti, l’esposizione al sole e agli agenti atmosferici ha ispessito la loro pelle; ma soprattutto, il serrato e continuo confronto col limite ha acuito il loro sguardo, uno sguardo che oggi è limpido e profondo; è – ecco – dolcemente implacabile.
I miei amici corridori non badano troppo ai gadget: indossano raramente l’ultimo modello di GPS con cardiofrequenzimetro al polso (che non funziona mai, ma va beh), barometro, tachimetro ed erogatore di caffè americano. Quando però qualcuno glielo regala, lo guardano con la meraviglia che hanno i bambini davanti a un albero di Natale, e subito dopo si vergognano un po’ di tutte quelle funzioni che non adopereranno mai. Allo stesso modo, non assumono dosi equine dell’integratore alla moda dopo aver corso sei chilometri, né si agghindano con materiale tecnico che costa dieci euro a centimetro quadrato. Non ci cascano, insomma.
I miei amici corridori sentono le gare nel modo giusto: non si presentano alla partenza pallidi come cenci, perché sanno che non si troveranno di fronte a un plotone di esecuzione; però sono concentrati e sul nervosetto andante, perché si sono preparati per mesi e sono pronti a esprimere il massimo delle proprie possibilità atletiche, piccole o grandi che siano.
I miei amici corridori, Dio li abbia in gloria, non dicono mai – prima di una gara – “Mi basta finirla”, perché non sono soliti schivare le responsabilità o accampare alibi.
I miei amici corridori sanno gioire dei successi altrui e ridere delle proprie sconfitte (oddio: ridere sì, ma dopo essersi incazzati un bel po’); sanno competere lealmente ma – per la miseria – sino a spremere l’ultima goccia di sudore.
I miei amici corridori sono schizofrenici, perché concentrano il dosaggio settimanale di alcolici nelle sere giuste, e le sere giuste sono quelle in cui l’indomani non è previsto un allenamento. Sono anche degli amabili bugiardi a fin di bene, perché riescono a mantenere saldo l’equilibrio familiare, convincendo chissà come il proprio partner che quello sfigatissimo paesino del varesotto dove si terrà una sconosciuta mezza maratona racchiude inestimabili tesori paesaggistici e culturali.
Si può dire, in sintesi, che i miei amici corridori hanno capito quanto sia bella la corsa. Quanto sia bella e delicata: se la si maneggia senza la dovuta attenzione, esagerando con la foga, essa può tramutarsi nella peggiore nemica. Ma se ci si limita a osservarla o ad accarezzarla troppo timidamente, lei non si fa mica conquistare.
Gente sveglia, i miei amici corridori. Beati loro.
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