Libri

Il Subbuteo, una filosofia a portata di unghia

Per almeno due motivi, da diverse settimane questa rubrica non si occupa più solo dello sport che pratico a livello dilettantistico, il podismo.

Intanto perché dalle manie è bene cercare di liberarsi, e poi perché nei mesi di assenza di gare non sarebbe stato facile inventarsi un nuovo argomento ogni lunedì.

E così questo piccolo spazio si sta aprendo sempre di più ad altri ambiti sportivi. Va bene: soprattutto al calcio, altra antica passione di chi vi sta scrivendo.

Ma parlare di un gioco che si ispira al calcio vale ancora, in un appuntamento dedicato allo sport?

Secondo me sì, se il gioco in questione è capace di riflettere (ma forse dovrei dire rifrangere, che è un riflettere solo parzialmente fedele) il fascino dello sport da cui deriva.

D’altronde cos’è il podismo amatoriale, se non una rifrazione di quello professionistico?

Filosofia del Subbuteo

Una premessa fin troppo lunga, la mia, che ha rubato spazio al bel libro di cui voglio brevemente parlarvi. Ovvero Filosofia del Subbuteo, scritto da Paolo Dellachà e uscito per i tipi del melangolo lo scorso 26 agosto.

Filosofia del subbuteo, diciamolo subito, non è riservato a chi in qualche modo abbia o abbia avuto un qualche rapporto col panno verde.

Anzi, il volume è stato architettato con sapienza per risultare altrettanto gradevole se letto dalle tre possibili tipologie di fruitore: il professionista, il romantico e l’ignaro.

Il professionista del Subbuteo (o che si autonomina tale) avrà per le mani un manualino documentatissimo, che ci offre un suggestivo excursus storico del gioco, ne delinea le regole, ne indaga categorie e sottocategorie con un’equidistanza e un’acribia che solo un avvocato (è il mestiere di Dellachà) avrebbe potuto garantire.

Il romantico, ossia chi magari ha giocato a Subbuteo in gioventù, troverà un’intelligente ode alla malinconia. Intelligente perché onesta e mai piagnucolosa: l’autore sa bene che il calcio da tavolo è un gioco che corre il serio rischio di essere identificato come il simbolo di una fantomatica età dell’oro, in cui tutto era semplice, genuino e lento, mica come l’ipercinetica contemporaneità ben rappresentata dai videogiochi.

Qui Dellachà, grazie al soccorso del buon senso e di uno stile elegante e persuasivo, esce a testa alta. Demistificando ogni luogo comune intorno al tema ieri era meglio di oggi, e investigando la malinconia da una prospettiva generazionale (non può non emozionare, come è accaduto all’autore, ritrovarsi a condividere un’attività ludica prima nel ruolo di figlio e, qualche decennio dopo, in quello di padre).

E così siamo al motivo per cui Filosofia del Subbuteo può essere una lettura appagante anche per la categoria dell’ignaro, rappresentata da chi non sappia cosa sia il calcio da tavolo.

Se ogni gioco (ogni bel gioco, che abbia regole chiare e giocatori disposti a condividerle) è una salutare uscita dal mondo, ogni libro (ogni bel libro) che indaghi quel gioco in profondità, non limitandosi alla disamina degli aspetti tecnici ma addentrandosi nella sua mistica, diventa quasi un testo liturgico, un livre de chevet pronto a ricordarci che non siamo nati solo per produrre (report lavorativi e spazzatura differenziata, di solito), ma anche per aderire al nucleo più autentico della vita. Come? Accordandoci al suo ritmo, abbandonandoci allo scorrere del tempo.

“Soprattutto però si tratta di un consumo di tempo totalmente fine a sé stesso, che rende ben chiara e percettibile l’affermazione questo è un gioco, e il fatto di parteciparvi per lo scopo stesso, autosufficiente, di giocare. In questo senso il Subbuteo può costituire, prima ancora che un mondo ove rifugiarsi per avere tregua del tempo – o peggio ancora per vantarsi di usarlo con lentezza – un contesto in cui il tempo può essere consumato senza bisogno di pretesti, scuse, camuffamenti” (pp. 74-5, corsivi nel testo).

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