Cari lettori, mi rendo conto che non abbiamo mai preso davvero il toro per le corna.
Mi spiego meglio: abbiamo spesso parlato di maratona, sia della preparazione alla gara sia delle bellezze e dei misteri che essa porta con sé. Ma non ci siamo mai soffermati sul momento fatidico, il trentesimo chilometro (e dintorni), il vero motivo per cui ogni podista amatore più o meno forte accetta la folle ed entusiasmante sfida della gara regina.
Lo facciamo oggi, un po’ come approfondimento di quanto scritto la scorsa settimana, un po’ perché (permetteteci l’autocitazione) è l’argomento delle puntate numero 65 e soprattutto 66 del nostro podcast.
Prendiamo il trentesimo chilometro per praticità. È quello a partire dal quale le cose cominciano a farsi serie. E anche, non nascondiamocelo, quello preso simbolicamente come distanza da cui si può iniziare a sbattere nel terribile muro.
Per affrontare in modo dignitoso i chilometri finali di una maratona, che domande, ci si deve allenare. Per almeno tre mesi occorre sottoporsi a un programma di allenamenti specifico, e non sarebbe davvero male riuscire ad alimentarsi e a riposare (riposare non significa solo dormire, mi raccomando) in modo opportuno.
E qui c’è una brutta notizia. Per quanto si sia arrivati al giorno della maratona avendo svolto ogni allenamento in modo rigoroso, senza aver toccato né un dito di birra né una patatina fritta per settimane, ed essendo rimasti alla larga da stress e notti insonni, ebbene: mi spiace, ma non c’è alcuna correlazione matematica tra ciò che si è svolto alla perfezione nelle settimane precedenti, e il fatto che i quarantadue chilometri e centonovantacinque metri andranno nel migliore dei modi.
Certo, non neghiamo che ci sia una forte correlazione. Un podista ben allenato ha ottime probabilità di correre bene in gara. Ma senza dimenticare che nelle ultime ore può accadere di tutto: c’è il rischio, se siamo in una città d’arte, di passeggiare per monumenti sprecando energie preziose. O quello di farci trascinare in un ristorante tipico proprio la sera prima della maratona.
Non parliamo poi degli scherzi della spavalderia: sentirsi in una condizione di ottima forma può portare a correre i primi chilometri a un ritmo anche di pochi secondi superiore alle nostre possibilità. E la frittata è fatta.
Aggiungiamo ciò che è capitato all’estensore di queste righe: trovarsi al picco della condizione non il giorno della gara ma, poniamo, il giorno dell’ultimo lunghissimo. E dunque affrontare la maratona già in fase di forma calante.
Vero è che può anche accadere il contrario. Me lo ricordo bene: Firenze, novembre 2017. Una maratona preparata così così, un acquazzone tremendo durante la gara, la necessità di dar fondo a tutte le energie, anche per timore di non arrivare al traguardo. Il risultato? Uno splendido negative split (ossia la seconda parte di gara più veloce della prima) e gli ultimi chilometri corsi in spinta.
Ma arriviamo a quei chilometri lì, dal trentesimo in poi. Quelli in cui, lo abbiamo già scritto altrove, crolla il principio di non contraddizione, secondo cui una cosa è o non è.
Perché in quei momenti noi ci troviamo svuotati di ogni energia e contemporaneamente presenti a noi stessi come mai siamo stati, con i sensi acuiti e nessun bisogno superfluo.
È una condizione che trascende il normale impegno, la normale fatica. Siamo noi nel modo più puro, vero, onesto. E proprio perché condizione altra dalla quotidianità, è persino difficile da rendere attraverso le parole.
E perché lo facciamo, perché ci sottoponiamo a un simile sforzo, a una simile solitudine senza scampo? Forse perché in qualche recondito anfratto della memoria ci ricordiamo di quando non dovevamo controllare le chat ogni venti secondi, di quando eravamo ancora capaci di dedicarci con concentrazione assoluta a uno e un solo compito, per la cui riuscita erano richieste tutta la nostra passione, la nostra competenza, la nostra tenacia.
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