E poi, a un certo punto della preparazione di una maratona, spuntano loro: i lunghissimi. Si fa finta di niente per settimane, ci si impegna nei lenti, nelle ripetute, nei progressivi (i non podisti mi scuseranno per questo linguaggio esoterico), sino a quando – un bel giorno – nel nostro programma di allenamento, in corrispondenza di una domenica, troviamo un numero a doppia cifra che comincia per due; e un paio di settimane più in là, quel numero a doppia cifra comincerà addirittura per tre. È lì che noi deglutiamo, ci domandiamo chi ce lo abbia fatto fare e proviamo un’invidia tremenda per i nostri amici che si limitano a gareggiare nelle campestri, nei 10.000 metri in pista, concedendosi al più una mezza maratona ogni tanto.
Il lunghissimo è l’allenamento cardine in vista di una maratona. Si affronta nella seconda parte della preparazione; si tratta, come vuole la temibile parola, di coprire una distanza che va dai ventiquattro-venticinque chilometri sino ai trentacinque-trentasei. Pochi (e molto ben allenati) sono ormai gli amatori che si spingono a trentotto. E c’è andata bene, perché sino a qualche anno fa nell’ultimo lunghissimo si tendeva a superare i quaranta chilometri. Celebre in questo senso è stato Gelindo Bordin, che prima di una gara regina arrivava a macinare anche cinquanta chilometri filati!
Il lunghissimo si corre di solito a due velocità: nella prima e più lunga parte si tiene un ritmo ragionevolmente lento, mentre nella seconda parte si accelera uniformandosi più o meno alla velocità che si vorrebbe tenere in gara. Ci sono anche lunghissimi più articolati, con complesse variazioni di ritmo al proprio interno, ma sono di solito destinati a professionisti o ad amatori evoluti.
La distanza da coprire nei lunghissimi cresce di solito di quattro chilometri in quattro, o di due in due: è comunque buona norma correrne almeno tre dai venticinque ai trenta chilometri, e due o tre sopra i trenta. Il lunghissimo mette a dura prova muscoli e tendini: ecco perché ne tocca uno ogni due settimane, e solitamente si corre l’ultimo (e più lungo) a tre settimane – in alcuni casi a due – dalla gara.
Il lunghissimo abitua il corpo a correre per distanze sempre più lunghe, e alla massima velocità possibile. Con una partenza cautelosa e una modesta accelerazione nella seconda parte, poi, si impara a consumare sin da subito una miscela composta in buona percentuale da grassi, in modo da preservare il più a lungo possibile il prezioso glicogeno, di cui disponiamo in quantità limitata, l’esaurimento del quale porta il podista a sbattere nel famigerato muro del maratoneta.
Ma il lunghissimo insegna anche a convivere con piccoli fastidi fisici che compaiono e scompaiono, con monotonia e solitudine, e con una fatica sempre crescente, una sensazione di spossatezza che presto o tardi ci farà venire un’irresistibile voglia di fermarci, tornare a casa, fare la doccia e buttarci sul divano a guardare un vecchio musical hollywoodiano.
Ecco quindi che i lunghissimi sono prefigurazione di quel viaggio assurdo, ipnotico, spossante e splendido che prende il nome di maratona. Il lunghissimo, come la maratona, celebra l’inutile, l’uscita dal mondo delle relazioni, lo spaesamento dell’io, la perdita di ogni consueto appiglio esistenziale. Per questo il lunghissimo, così come la maratona, è una medicina efficacissima contro il narcisismo, nonché contro questo nostro destino di imperterriti produttori di senso, di ingranaggi dell’eterno meccanismo causa-effetto. Il lunghissimo, al pari della maratona, equivale in fondo allo spostarsi attraverso i luoghi per decine di chilometri al solo scopo dell’azione medesima dello spostarsi. Non c’è guadagno economico e sociale. Si va per andare.
“Senza nessun altro motivo?”, chiederà il capufficio attonito.
“Senza nessun altro motivo”, risponderemo sorridendo.
Non è bellissimo?
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