Editoriale

Di infortunio in infortunio

Questa è la storia di un podista un po’ triste e un po’ incazzato il cui nome, naturalmente di fantasia, è Claudio.

Costui è un signore quarantasettenne che corre con costanza e passione (benché con risultati trascurabili, ma cosa importa) dal 2015.

Per motivi imperscrutabili, forse da rinvenire in una struttura fisica robusta o nel mai troppo celebrato culo, il podista in questione non aveva mai subito infortunio alcuno.

Fino allo scorso gennaio. Quando, ritrovandosi uomo di mezz’età alle prese con ciò che fino ad allora era per lui stato solo letteratura, ha sprigionato tutto l’arretrato di mugugni che – chi si infortuna con periodicità più canonica – può diluire nel corso delle stagioni.

Essendo egli, tra le altre cose, il curatore di una rubrica settimanale sullo sport di endurance, ha sottoposto i poveri e incolpevoli lettori al resoconto delle propri sfighe. E pure in diverse puntate.

L’infortunio e l’effetto domino

Credenza popolare è che, una volta patito un infortunio, lo si individui, si guarisca e si possa tornare – salvo casi estremi – come si era prima dell’infortunio medesimo.

Il problema è che un infortunio, specie se capita a un podista, ingenera come minimo quella che si chiama posizione antalgica. Ovvero una postura alternativa a quella fisiologica, che il corpo mette in atto (senza che noi ce ne accorgiamo) per non gravare troppo sulla zona infortunata.

Il personaggio di fantasia che qualche mese fa era alle prese con una spina calcaneare nel tallone destro, ad esempio, nei mesi successivi ha sovraccaricato l’arto inferiore sinistro.

Per cui adesso si ritrova alle prese con quella che si chiama come un ballo caraibico: borsite trocanterica.

Il nostro personaggio fittizio, Claudio, di solito incline alla parsimonia e al disinteresse verso le sirene commerciali, ha comprato fasce elastiche di ogni dimensioni, piccoli e grandi attrezzi. Per riuscire, grazie a un set di esercizi degni di un atleta olimpico, a debellare quanto prima questo secondo e inatteso guaio.

Gli effetti sul fisico

Il problema è che, di acciacco in acciacco, il fisico del nostro personaggio è sempre più indebolito e meno allenato. Riesce ancora, sì, a correre, ma al fastidio di una condizione fisiologica che stenta a tornare, si aggiunge anche la peggior condizione di forma atletica da quando egli ha iniziato a correre.

Gli effetti sulla psicologia

Ma il tormento maggiore non riguarda i tempi cronometrici o i tentativi finora frustrati a riguadagnare una quotidianità priva di dolori e dolorini.

È la sensazione malinconica di essere passato dall’altra parte. Di aver smesso definitivamente di godere di quella condizione infantile e magica che precede il primo infortunio, quando si ha il pieno diritto di reputarsi immortali. Dopo di che, è solo un travaso da un accidente all’altro, più o meno grave, più o meno lungo quanto a tempi di guarigione. È come una seconda consapevolezza del progressivo e inesorabile invecchiamento, e dunque della finitudine: lo si impara una prima volta in senso assoluto (e a ciò, negli sportivi, concorre anche il sempre più evidente decadimento delle prestazioni atletiche), e poi più nello specifico con gli infortuni.

Perché l’infortunio non è mai uno. Può essere zero, o può essere il primo (sottinteso: di una serie potenzialmente infinita, se infinita fosse la nostra esistenza).

Nei momenti di peggior sconforto, il nostro personaggio di fantasia pensa all’eventualità di una vita senza la corsa. Nei momenti di maggior conforto, egli pensa alla medesima cosa, ma con animo disteso: al mondo c’è pieno di gente ragionevolmente serena che non corre.

Per fortuna che, nel frattempo, il nostro fantomatico Claudio sta continuando a fare esercizi ed esercizietti. Perché ci sono anche attimi nei quali è ancora piena la fiducia di tornare a correre come prima.

Ma per fortuna, soprattutto, si tratta di un personaggio di fantasia.

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Tag: infortunio

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