Editoriale

Corsa e libertà

Da qualche tempo mi ronza in testa un pensiero, al quale ho dato finalmente forma dopo aver intervistato Guglielmo Causarano per il mio podcast.

Guglielmo coordina l’organizzazione della Filippide, una maratona del tutto particolare. Perché si svolge lungo un percorso privo di riferimenti spazio-temporali (di solito, ad esempio, i ristori sono piazzati ogni cinque chilometri). Di più: chi corre la Filippide non può dotarsi di alcun marchingegno in grado di stabilire, anche in modo approssimativo, la distanza percorsa. Via gli orologi GPS, dunque, ma anche le app e… i contapassi.

Succede così che la Filippide trasforma una maratona in un ibrido, una gara-non gara in cui la componente agonistica viene insidiata, se non proprio scalzata, da quella psicologica: se competizione è, è soprattutto con se stessi.

L’intervista, dicevo, mi ha dato la possibilità di soffermarmi una volta per tutte a ragionare sul rapporto tra corsa e libertà.

Corsa, libertà, agonismo

Iniziare una qualunque attività con un certo impegno (lo studio di uno strumento musicale, il giardinaggio, la numismatica) dà immediate gratificazioni: si migliora molto nei primi tempi, insomma. Lo stesso vale per la corsa: ecco il primo motivo per cui, una volta scoperti i segreti del GPS, un podista amatore vorrebbe gareggiare ogni settimana.

Non va poi dimenticato l’aspetto sociale delle competizioni, ma anche tutti i rituali, i sussulti psicologici del prima, del durante e del dopo, a cui è più che normale affezionarsi. Per non parlare di quanto sia bello prepararla, una gara: un’avventura nell’avventura.

Benissimo. Con un piccolo problema annesso: che la componente agonistica del podismo rischia di farci dimenticare una cosa non proprio accessoria. E cioè che, soprattutto per noi amatori, la corsa è (o dovrebbe essere) soprattutto sinonimo di libertà.

Corsa e libertà: si invecchia

Tuttavia, il tempo passa, i miglioramenti all’inizio sostanziosi (nella corsa così come in qualunque altro ambito) sono sempre più risicati, sino ad arrivare all’anzianità (non per forza anagrafica: intendo anche anzianità di pratica), quando la priorità diventa un’altra: quella di fare in modo che il declino sia graduale e poco traumatico.

A questo punto, proprio il tempo che passa ci pone già davanti alla domanda cruciale: come comportarsi con la corsa? Restare nell’agone, pur accettando l’inevitabile deterioramento delle nostre prestazioni, o abbandonare l’ossessione per tempi e tabelle, lasciandoci guidare dal puro e semplice gesto di correre?

Le età della vita

Non c’è una risposta giusta, va da sé. E, certamente, l’ottantacinquenne che completa una gara di dieci chilometri si sta trattando meglio del coetaneo che trascorre le giornate sul divano guardando telefilm e ingollando cibi spazzatura.

Tuttavia, forse, chi si ostina a competere come se gli anni non trascorressero, ha perso di vista un concetto esistenziale: che ogni età della vita va vissuta, mi verrebbe da dire celebrata, per quella che è. La sensazione, in altre parole, è che chi insiste a preparare e poi onorare sfide ardue e sfiancanti, ignora (o fa finta di ignorare) che nella seconda parte dell’esistenza siamo chiamati non ad aggiungere ansiosamente esperienze alla nostra collezione ma semmai a contemplare, accogliere, accettare.

Senza dubbio è una prospettiva che spaventa, e dalla quale è umano rifuggire. Essere saggi è difficile.

Corsa, libertà, gare

E così, per concludere, forse chi non è più ragazzo potrebbe piano piano contemplare l’idea di allontanarsi da gare e programmi di allenamento, per recuperare un rapporto più diretto col gesto del correre, lasciando che siano i giovani – è l’ordine delle cose – a darsi battaglia. E lo si può fare sorridendo sornioni, perché si avrà modo di riscoprire il primo e principale senso della corsa: la libertà.

Che, essendo libertà non solo dai ruoli sociali ma anche dai doveri, può addirittura esonerarci dal correre un certo numero di chilometri o un chilometro a una certa velocità.

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Tag: Filippide

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