Mentre proseguono gli allenamenti in vista della maratona di Pisa, chissà quando e chissà come ho fatto un ragionamento (che, spudorata promozione prenatalizia, troverete sviluppato nell’ottantesima puntata del mio podcast, in streaming da martedì 4 dicembre).
Ho pensato che, a un certo punto, i podisti amatori si dividono in due categorie. Vi spiego.
Quando si comincia una qualunque attività (lo studio di uno strumento musicale, l’apprendimento di una lingua straniera…) si impara molto alla svelta, perciò ci si sente bravissimi. Poi gli avanzamenti diventano sempre più risicati, si finisce con lo sforzarsi di trattenere quanto si è imparato, e insomma ci si impegna a… peggiorare nel modo più morbido possibile.
Questo vale anche per il podismo. Voglio dire che nei primi tempi, cronometro al polso, a prescindere dal nostro valore atletico ci troviamo a correre sempre più velocemente, ci meravigliamo delle nostre prestazioni, trascorsa qualche settimana ci sentiamo pronti per le prossime Olimpiadi. Diciamo pure che ci montiamo la testa. Ecco: almeno nella fase iniziale, un po’ per tutti, l’approccio alla corsa è agonistico.
Poi, a un certo punto, ciascun podista (anche se in molti fanno finta di niente) capisce il proprio autentico valore.
Ed è qui che avviene la divaricazione. I corridori forti, legittimamente, continuano a vivere la corsa in modo agonistico: gareggiano spesso, si allenano allo sfinimento, guerreggiano col tale atleta che gira suppergiù sui medesimi ritmi, si sottopongono a una dieta ferrea, impongono al partner le vacanze in prossimità di una pista di atletica, eccetera.
Ma la corsa agonistica può anche essere perseguita – altrettanto legittimamente, chiariamo – da emeriti tapascioni, che però hanno un rapporto un po’ ossessivo col cronometro (o, meglio, con l’orologio GPS), e percepiscono il podismo come un agone nel quale è proprio dovere tentare di spuntarla.
Poi ci sono gli altri. No, non sono quelli che gettano via il GPS e affrontano la corsa con spirito libertario, per il solo gusto di ritrovare un ingenuo (e retorico) rapporto con la natura.
No. Anche i podisti di questa seconda categoria continuano a correre affidandosi a tabelle e allenamenti diversificati, fanno il possibile, eppure percepiscono che per loro la corsa è anche, o soprattutto, altro. Nel senso che dietro all’aspetto agonistico del correre intuiscono qualcosa di indefinito e informe, che pulsa, che scalpita per emergere.
Costoro corrono per provare, a ogni allenamento, quella sensazione di fatica, di spaesamento, che allo stesso tempo è un’uscita dal mondo e una conquista del rapporto più essenziale possibile col mondo (e dunque con se stessi). Lontano dal plauso proprio o altrui, lontano dagli allori e dai tragicomici premi di categoria elargiti alle gare.
Chi si disinteressa alla corsa agonistica non è attratto né dall’aspetto competitivo né da quello sociale, del correre. E da cosa, allora?
Ottima domanda, alla quale è difficile rispondere. Ma noi ci proviamo ugualmente.
Correre per correre significa stare nel gesto della corsa senza pretendere altro.
Mentre la vita, in fondo, è quasi sempre un continuo pretendere altro. Scoprire nuovi luoghi, fare nuovi incontri, leggere nuovi libri, vedere nuovi film…
Si scalpita per moltiplicare le esperienze, nell’illusione di? Forse di cercare l’onnipotenza, l’immortalità?
Correre per correre, invece, è una scandalosa azione che va nella direzione opposta: ci libera dalla tentazione (ossessione?) di cercare il nuovo, e ci tiene ben saldi nella ripetizione di un gesto che trova in se stesso il pieno compimento.
Ecco dunque che la corsa ci invita a rifiutare il superfluo per trovare l’essenziale, ciò che – al fondo di tutto – siamo davvero. E non è mica poco.
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