Editoriale

I corridori che corrono

Dal momento che non posso ancora correre, guardo gli altri farlo.

Voglio dire: non che mi metta sul terrazzo ad aspettare i podisti che passano sotto casa mia. Anche se, le volte che sto lavorando con la finestra socchiusa e sento l’inconfondibile ritmo del corridore in avvicinamento, càpita che io balzi in piedi dalla sedia con l’idea di uscire a sbirciare il fortunato atleta, ma poi un’improvvisa fitta al tallone mi rimette subito a sedere.

No, dico che guardo le briciole di atletica che passa in televisione, leggo le riviste specializzate, mi informo su allenamenti e gare di amici e conoscenti. E, per quel poco che frequento i social, ogni tanto leggo post e commenti sul podismo.

Sarà perché un periodo così lungo senza corsa mi sta rendendo nervoso, ma a me sembra che ultimamente i podisti si dividano in tre categorie, due delle quali – non so come dirlo meglio – mi convincono proprio poco.

I velocisti da 6’00” al chilometro

Da qualche parte devo avere scritto quanto mi diano noia coloro che sgambettano per qualche chilometro, con una tecnica di corsa risibile, e che riescono (ma da chi, poi?) a farsi scattare decine di fotografie che appiccicano su tutte le piattaforme social, aggiungendovi quelle tremende frasi motivazionali che si leggono nella sala d’attesa di certi osteopati di provincia.

Sono un classista del podismo? Ma niente affatto. Semmai sono felice che negli ultimi anni sempre più persone corrano (non mi stancherò mai di ripetere, come dice tra gli altri Fulvio Massini, che una persona in più che corre è una persona in meno a rischiare una serie di patologie). Tuttavia, l’amatore di basso livello che dopo un modesto allenamento si immortala come se avesse appena compiuto un’azione eroica commette due errori: il primo è quello di confondere un piccolo successo personale con un gesto epico da condividere (non si guarda mai abbastanza oltre il proprio naso). E il secondo, ben meno veniale, è quello di confondere la corsa con una cosina semplice, tutta volta al positivo, che dà il massimo di soddisfazione con il minimo di sforzo.

Non per essere retorico ma mi pare che, almeno nel nostro mondo, qualunque ambito restituisca in base alla profondità con cui lo si indaga. E la corsa non sfugge alla norma: la sua bellezza grande sta nella vista annebbiata e nelle gambe dolenti del trentanovesimo chilometro di una maratona, o nell’ultima ripetuta da quattrocento metri in pista, quando ci si domanda se a lasciarci per primi saranno i polmoni, il cuore o i quadricipiti femorali.

I moralisti dei tempi andati

Ma sempre più nutrita e agguerrita mi pare anche un’altra categoria di corridori. Composta da non giovanissimi, che si ricordano con malcelato orgoglio dei bei tempi andati. In cui, se in mezza maratona impiegavi un’ora e dieci minuti, finivi novantaquattresimo.

Bene, e con questo? Chi chiude le mezze maratone in un’ora e cinquantasette minuti dovrebbe quindi desistere, o correre con una maschera di Ronald Reagan per non farsi riconoscere? (Ora non ricordo più grazie a, o per colpa di, quale film io abbia in mente la maschera di Ronald Reagan). Lo sanno anche i sassi che, oggi, a un forte aumento del numero di podisti corrisponde un abbassamento medio del livello atletico. Perché i corridori forti c’erano allora e ci sono oggi, mentre la novità degli ultimi anni è rappresentata dall’allargamento della cosiddetta base.

Il fatto è che poter sbandierare un vantaggio quantificabile (“quando eravamo giovani noi andavamo più forte di voi”) è un’occasione troppo ghiotta da sfruttare per potersi distinguere.

I corridori che corrono

Ma per fortuna mi dico che c’è anche una terza categoria di podisti, trasversale rispetto alla qualità delle prestazioni cronometriche. Ed è popolata dai corridori che corrono per correre (sì, ripetuto tre volte), per il gusto di faticare e lasciare che la fatica della corsa distragga dal mondo e – miracolo! – permetta allo stesso tempo di farne parte in modo più pieno.

Per poi ritrovarsi sfiniti ma innervati di un’energia e una felicità compiute, perfette, che nemmeno si sa bene da dove siano spuntate, ma che sono così vere che – qualche attimo dopo – farsi la doccia e rigettarsi nella solita vita, piena di scadenze, incomprensioni e inattingibilità, fa un po’ meno paura.

Ed è la categoria a cui sono orgoglioso, o mi illudo, di appartenere.

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