Nel giro di poche settimane ci troviamo, per la seconda volta, a recensire un volume sul podismo scritto da un’intellettuale (parola-ombrello così vaga da significare poco e niente, ma confidiamo nel vostro intuito) che corre con passione, che della corsa sa intuire gli aspetti ulteriori ma che della corsa suddetta non ha ancora conosciuto (e speriamo che ciò non accada mai) gli aspetti ossessivi.
Il primo libro di questa coppia ideale è De arte gymnastica, della giornalista e scrittrice Andrea Marcolongo, da noi recensito qui.
Il secondo libro lo abbiamo da poco finito di leggere, ed è stato un gradito dono dell’autrice: si tratta di Corri e lascia correre. Monologo sulle contraddizioni dell’essere di Alice Zannoni, critica d’arte, curatrice e quant’altro.
Corri e lascia correre, dato alle stampe da NFC Edizioni nel luglio del 2022, fa seguito a un altro volume di Zannoni, uscito per lo stesso editore nel 2018. Il cui titolo, L’arte contemporanea spiegata a mia nonna. Ridere, piangere e capire, mostra una certa inclinazione dell’autrice all’ironia e alla scelta di prospettive inedite da cui guardare (e descrivere) le cose del mondo.
Col passare del tempo sempre più elementi ci rinsaldano nella convinzione che la corsa sia uno dei grandi gesti umani primitivi. E che solo per avventura (in tutti i significati della locuzione) sia poi stata normata in sport.
Uno di questi elementi è la straordinaria varietà di modi in cui si può essere corridori.
Corri e lascia correre, ad esempio, è stato scritto da una podista che non ha mai partecipato ad alcuna gara (anche se qui e là trapela il suo desiderio di provarsi in una maratona). Che, tabagista, non solo non ha nessuna intenzione di smettere di fumare, ma semmai riesce addirittura a bramare una sigaretta durante un allenamento.
Ma soprattutto il volume di Alice Zannoni dimostra una volta di più che, a prescindere dall’equipaggiamento atletico e dal tempo che si dedica all’attività fisica, a tutti (a tutti coloro che hanno l’attenzione e l’intuitività necessarie) è dato di fiutare il mistero profondo della corsa.
Mistero profondo per cui, ad esempio, correndo ci sottraiamo alla teoria di ruoli sociali che siamo obbligati a rivestire, per ritrovare la nostra primigenia natura, quella di animali che vanno a ritmo col mondo: “Senza correre sono sottratta dello spazio dentro di me, mi sento compressa, come una bestia da allevamento intensivo, rinchiusa nel box a grugnire alla vita e destinata solo a un altro rendimento di produzione” (p. 92, corsivo nel testo).
Un insegnamento, a noi podisti talvolta troppo attenti alla prestazione, deriva poi da chi – come Alice Zannoni – ha un approccio più rilassato alla corsa. L’autrice, nelle pagine finali, esplicita il senso del titolo dell’opera: “Lasciar correre non significa abbandonare il destino al caso, tutt’altro: vuol dire direzionare l’andare superando l’ostacolo con placida serenità interiore. […] Lasciar correre è non subire il danno, in modo che la dannazione non si insinui nell’animo condizionando il futuro” (p. 116).
Quanto è vero! Comunque vadano un allenamento o una gara, cosa cambia – in fondo – nella nostra esistenza?
Certo, saremmo tentati di rivolgere a Zannoni il medesimo invito rivolto qualche settimana fa a Marcolongo. Ovvero: se l’autrice si addentrasse ancor più nella fatica del podismo, in quella salutare perdita di posizione che ci palesa la nostra estrema marginalità (ma che, nel contempo, ci fa percepire la nostra radicale appartenenza al mondo), forse ripenserebbe passaggi come: “Credo sia un esercizio, la corsa, così come la scrittura, di potere su se stessi e un tentativo di dominio sul mondo” (p. 18).
Anzi, all’autrice l’invito lo rivolgiamo esplicitamente, perché già nella pagina successiva Zannoni sembra possedere una certa confidenza con la virtù per così dire dimagrante della corsa. Che non è strumento di affermazione ma semmai di decentramento, di allontanamento dalla ricerca spasmodica di senso, di riconoscibilità, di sicurezza. “Correre quindi offre uno spettacolo straordinario e il bello è che non serve a niente, o almeno niente per come è concepito il niente nella società produttivistica in cui viviamo” (p. 19).
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