Cari lettori, ma non vi ho raccontato di Berlino!
Dove sono stato con la mia famiglia dal 6 all’11 aprile. Nei giorni intorno a Pasqua, insomma. Avrei voglia di illustrarvi la città con dovizia di particolari, perché la bellezza di Berlino (un mondo a sé all’interno del mondo) è unica. E ho la fortuna di avere una compagna che ci ha abitato, e che parla fluentemente il tedesco. Ma non devo dimenticarmi che qui si chiacchiera di sport.
In un cero senso, tuttavia, posso unire le due cose, perché vi parlerò di Berlino parlandovi di corsa. O forse viceversa.
Come sapete, il 2 aprile non ho partecipato alla maratona del Lamone, per i motivi che vi ho spiegato altrove.
E improvvisamente, a partire dall’indomani di questa scelta un po’ dolorosa, ho iniziato a correre bene. Libero dall’asservimento alle tabelle, ho sentito le gambe morbide come non mi capitava da mesi, e ho modellato l’allenamento sulla condizione psicofisica della giornata.
Lo stesso è successo a Berlino. Se avessi dovuto seguire un programma di allenamento, probabilmente sarei stato nervoso e antipatico, e avrei rovinato il soggiorno alla mia compagna e a mia figlia.
Con questa ritrovata leggerezza, invece, non mi è per nulla pesato alzarmi all’alba per tre mattine su cinque, vestirmi e lanciarmi in strada, facendo di volta in volta il numero di chilometri desiderati.
Alloggiavamo nei pressi di Sonnenallee (per i più curiosi, ci hanno fatto pure un film), una via lunga più di cinque chilometri che sino al 1989 era divisa in due dal Muro.
Sono stato di certo facilitato dal fatto che, nei giorni festivi, il traffico automobilistico era ridotto all’osso. Ma che meraviglia correre per il puro gusto di andare, e soprattutto che meraviglia farlo in un luogo a me sconosciuto.
Tuttavia, prima di approfondire questo ulteriore aspetto, ancora qualche parola sul piacere di correre per correre.
Evidentemente, noi amatori dobbiamo smetterla di prenderci troppo sul serio. O meglio: va benissimo decidere un obiettivo. E va benissimo, una volta deciso, impegnarsi con tutte le energie per raggiungerlo. Ma ci sono periodi della vita in cui la corsa non può essere prioritaria. Occorre un grande sforzo di onestà per riconoscerlo, perché sappiamo quanto i chilometri diano la loro agrodolce dipendenza.
In certi momenti bisogna dunque abbandonare la corsa? Niente affatto. Semmai correre per correre, appunto. In modo che la corsa non sia un’ulteriore fonte di fatica psicofisica, ma – al contrario – una preziosa alleata per lenirla.
Se correre significa in qualche modo perdersi, guai a voi se non correte (anche) in luoghi diversi dai vostri soliti.
Già: correndo si abbandonano i ruoli sociali cui siamo chiamati per tutta una vita. Quello di lavoratore, cittadino, partner, figlio, genitore…
E ogni ruolo sociale ha dei luoghi fisici in cui va espletato. Correre per correre, invece, per attraversare quei luoghi senza “usarli”, ci ricorda che siamo anzitutto animali appartenenti a un pianeta. E poi, solo poi, individui appartenenti a una società.
Correndo su e giù per la variopinta e multietnica Sonnenallee, tra colori, odori e suoni per me ignoti, non mi sono affatto sentito un estraneo, ma ancor più appartenente all’umanità, al mondo (e mi scuserete se qui la retorica è in agguato).
Allenarsi ovunque siamo, ecco, è anche un grande esercizio di democrazia e appartenenza.
Infine, correre senza obiettivi cronometrici, e in più durante una vacanza, colloca la corsa tra le attività che accompagnano in modo naturale la nostra esistenza, come addormentarsi, vestirsi, informarsi sulle notizie principali del giorno, fare colazione e prendere un caffè.
Ah, no: il caffè dell’appartamento di Berlino era imbevibile.
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