Sport individuali

Correre o morire

Sei anni prima

Qualche settimana fa abbiamo recensito (qui) Niente è impossibile, recentissima autobiografia del trentaduenne Kilian Jornet, campione di skyrunning, sci alpinismo e trail running. Alla luce di questo volume, è stata curiosa la lettura di Correre o morire, uscito per Priuli & Verlucca nel 2013 (traduzione di Francesco Ferrucci, prefazione di Simone Moro): i sei anni che intercorrono fra la pubblicazione dei due libri permettono di individuare analogie e differenze, che probabilmente rispecchiano da un lato la maturazione di un giovane uomo, dall’altro la fedeltà a pochissimi (ma assai ben radicati) principi.

Correre o morire

Cominciando dalle tangibili differenze tra le due opere, in Correre o morire traspare un ardore sportivo e umano poi temperatosi negli anni; Kilian infatti racconta il suo vagabondaggio per il mondo con un manipolo di amici al solo scopo di allenarsi, gareggiare e se possibile vincere: “Come per una droga pesante, all’inizio bastava provare tutto ciò due o tre volte all’anno, però il mio corpo non ne aveva mai abbastanza e mi chiedeva sempre con più brama di partecipare a un’altra competizione”, p. 34. Non mancano momenti di autocelebrazione, addebitabili probabilmente all’età, che in effetti sembrano essere scomparsi nel Kilian Jornet di oggi, famoso non solo per il suo grande talento ma anche per la sua modestia e per la scarsa attitudine alla sovraesposizione mediatica.

Già allora, tuttavia, l’amore quasi ossessivo per lo sport lo induceva a ragionamenti sulla natura più profonda della corsa: “Correre è un’arte, come dipingere un quadro o comporre un brano musicale. E per creare un’opera d’arte bisogna aver chiari quattro concetti fondamentali: tecnica, lavoro, talento e ispirazione” (pp. 46-7).

Ma è il resoconto (anche piuttosto dettagliato) di alcune imprese atletiche, come la traversata dei Pirenei di corsa, a istituire un solido ponte fra il Kilian del 2013 e quello attuale: nelle sue parole si riscontra una dedizione assoluta alla disciplina sportiva, alla quale è riferito ogni gesto o pensiero, come in una vocazione religiosa. Non ci sono scarti o tentennamenti, né si avverte mai la sensazione di coincidenza tra fatica e sacrificio; la piena identità tra vita e corsa, in fondo, chiede solo di non opporre resistenze all’istinto: “La corsa è vita, e finisce quando si passa la linea d’arrivo. Il dopo non esiste, pensi solo ad arrivare il più velocemente possibile; non pensi alle conseguenze che possono avere gli sforzi, i colpi o le ferite in un secondo tempo, perché non c’è niente dopo aver fermato il cronometro. Perché finisce la vita che abbiamo creato per adnarne a cercare un’altra da creare”, p. 51.

Ed ecco che in uno dei passaggi più intimi e suggestivi del libro si intravede già il Kilian Jornet adulto, quello che implicitamente si domanda – forse da sempre – perché non voglia far altro che correre. La risposta, inattesa, non solo non riflette alcun narcisismo o spirito competitivo, ma casomai rivela un’acuta comprensione dell’umana misura e degli umani limiti, e un rispetto quasi filiale verso la maestosità della natura e del mondo: “Adesso sono solo. La montagna è tornata grande e io sono diventato una semplice foglia il cui destino dipende da come tira il vento. Però, alla fine, non è questo che cerchiamo quando andiamo in montagna? Quando andiamo a correre sui crinali? Sentirci umani, sentirci insignificanti in questo mondo, piccoli, circondati da una natura con una forza spropositata. Come un neonato smarrito che cerca sua madre per proteggersi dall’immensità di un mondo sconosciuto. E lottare per vincere o, che poi è lo stesso, passare inosservati, senza far rumore per non svegliare l’orco, tra questi giganti che ci circondano, fino a raggiungere le braccia materne”, p. 114.

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